Cronache dal lido #3 – Venezia 76
Olivier Assayas si presenta a Venezia con un film di spionaggio, allontanandosi dai toni comici di Doubles vies, presentato, sempre al Lido, solo un anno fa, per riallacciarsi piuttosto alla miniserie Carlos diretta nel 2010. Uno dei protagonisti di Wasp Network è infatti Edgar Ramírez che stavolta interpreta René, pilota cubano in fuga da L’Havana verso Miami, città dove trovare asilo e denunciare la grave situazione politica cubana. Siamo negli anni ‘90 e le persone in fuga dal regime castrista si riversano sulla città americana. Qui René entra in contatto con altri rifugiati e dissidenti politici ma pian piano si scoprirà che niente è come sembra e che dietro i rapporti amichevoli dei rifugiati cubani, l’FBI, gli aiuti umanitari dati ai cubani in fuga e gli attentati si muovono molte altre trame, dal traffico di droga al controspionaggio. Basato sulla vera storia dell’operazione di spionaggio chiamata appunto Wasp Network, trainato da un cast notevole (Penélope Cruz, Gael García Bernal, Wagner Moura e Ana de Armas), il film di Assayas è equilibrato e preciso nel racconto, forse sin troppo godibile nella sua scorrevolezza e privo di qualche tocco di intensità o suspence. (Giulia Angonese)
Non sono mancate, qui al Lido, durante gli ultimi anni di Mostra le odissee nello spazio. Dopo Gravity di Alfonso Cuaron e First Man di Damien Chazelle, tocca quest’anno a James Gray, con il suo settimo lungometraggio, aprire ancora una volta le comunicazioni con l’ignoto spazio profondo. Un progetto ambizioso, molto atteso dai fan del regista, che si inserisce in quel filone di fantascienza “adulta” che negli ultimi anni grazie a titoli come Interstellar o Arrival sembra stia conoscendo una rinnovata fortuna. E’ una anabasi dentro il cuore di tenebra di un figlio (Brad Pitt) alla ricerca del padre (Tommy Lee Jones), quella che Gray per immagini (più e meglio che con le parole) riesce a raccontare. Un road movie interstellare con qualche passaggio a vuoto ma, nel complesso, sicuramente affascinante. Ancora una volta nello spazio, racchiusa in quella dimensione spirituale di pura ascensione che il titolo già suggerisce, si nasconde il segreto per elaborare ogni tipo di “perdita”. (Stefano Lorusso)
Steven Soderbergh parte da lontano per introdurre la storia che sta al centro del suo ultimo film (in concorso), lo scandalo dei Panama Papers nel 2016, i documenti segreti che rivelavano al mondo una frode di dimensioni globali. La prima scena spiega l’evoluzione economica che dal baratto arriva al denaro e poi ai contemporanei meccanismi di fondi, investimenti, azioni, etc., quei complessi e invisibili strumenti finanziari di cui ci parlano Gary Oldman e Antonio Banderas in smoking e con lo sguardo in macchina all’inizio del film. Dopo, la terribile vicenda della vedova Ellen (Maryl Streep) si collega a un mosaico di storie collegate una all’altra tramite l’operato dello studio legale di Mossack (Oldman) e Fonseca (Banderas), che ricicla denaro e lo nasconde in società offshore inesistenti, gusci vuoti. Con uno stile che ricorda quello degli ultimi lavori di Adam McKay (La grande scommessa, Vice), Soderbergh adatta per il grande schermo (e il piccolo: il film è targato Netflix e uscirà sulla piattaforma il 18 ottobre) il libro di Jake Bernstein, reporter investigativo e vincitore del premio Pulitzer. Un cast stellare e irresistibile, un solido punto di partenza e la capacità di un regista di portare (anche) al grande pubblico un argomento contorto e di non facile lettura rendono The Laundromat un ottimo film politico, un’altra conferma per Soderbergh e uno dei titoli migliori del concorso. (Giulia Bona)
Unico film di animazione in concorso alla Mostra, No. 7 Cherry Lane ambienta le sue vicende ad Hong Kong durante le rivolte del 1967 e mette al centro della vicenda Ziming, studente universitario, oggetto dei desideri di una madre esule e della figlia 18enne. Lui stesso corteggia l’una ma desidera anche l’altra. Il film si presenta come una toccante storia d’amore animata delicatamente, ma in modo piuttosto tradizionale. Man mano che la narrazione si sviluppa l’autore decide di particolareggiare il film inserendo sequenze oniriche, irrazionali e spregiudicate che risultano la vera forza del film. Oltre ad una cinefilia forte che punteggia e guida l’intera narrazione e alla, non banale, capacità di non prendersi sempre sul serio e far ridere lo spettatore. Come dichiara lo stesso regista Yonfan il film è una “Lettera d’amore dedicata a Hong Kong e al cinema. Una storia che parla di ieri, oggi e domani. E soprattutto, è un film che parla di liberazione”. (Stefano Careddu)