Cronache dal Lido #10
La Mostra del Cinema di Venezia, giorno per giorno, raccontata dai nostri inviati
Hannah – Andrea Pallaoro
Tra i quattro film italiani in concorso in questa edizione della Mostra del Cinema di Venezia, due di italiano hanno quasi soltanto i fondi per la produzione e i registi: Paolo Virzì e Andrea Pallaoro. Nel caso del secondo i dati biografici ci allontanano ulteriormente dalla penisola. Pallaoro (per gli speaker ufficiali della Mostra l’accento è sdrucciolo), nato a Trento nel 1982, da anni si è trasferito negli Stati Uniti, dove ha studiato cinema e dove ha avuto la possibilità di girare il suo ottimo lungometraggio d’esordio, Medeas (2013), presentato a Venezia nella sezione Orizzonti. Per la sua seconda opera Hannah, attesa in concorso con aspettative importanti, Pallaoro ha scelto come location il Belgio e come protagonista una delle più grandi interpreti femminili in assoluto, Charlotte Rampling. Plasmando il film, a quanto lui stesso ha dichiarato, sul volto e sulla sensibilità della grande attrice inglese.
Non più giovanissima e priva dell’affetto dei suoi familiari, Hannah trascorre le giornate prigioniera di una grigia routine, in cui l’essere umano più bisognoso del suo affetto è un bambino non vedente. Condannata ad amare senza poter ricevere da nessuno uno sguardo d’amore, Hannah, una magnifica Charlotte Rampling da Coppa Volpi, è non a caso costantemente collocata dalla composizione delle inquadrature dietro muri, specchi o pareti che la dividono da qualcosa. Ispirato al cinema di introspezione più sperimentale di registi come Michelangelo Antonioni e Chantal Akerman, Hannah è un’opera ambiziosa e difficile, che tenta di filmare l’idea stessa di una solitudine disperata e totale. Un ritratto di donna di grande profondità quindi, ma non di facile lettura. E che sicuramente non sarà semplice immaginare dentro il contesto distributivo italiano.
Piazza Vittorio – Abel Ferrara
Da qualche anno Abel Ferrara, regista newyorkese di culto di pellicole come The Addiction (1995) e Fratelli (1996) ha scelto di vivere in Italia. Più precisamente a Roma, in un appartamento affacciato sulla storica Piazza Vittorio, cuore pulsante del caotico multiculturalismo della capitale. Qui ha messo su (ancora una volta) famiglia, e quest’anno al Lido, oltre che il suo nuovo documentario, ha portato compagna e figlia, entrambe protagoniste del suo ultimo lavoro. Piazza Vittorio è quello che probabilmente per molti altri cineasti sarebbe stato uno studio preliminare o la “copia lavoro” di un documentario vero e proprio. Nelle mani di Ferrara, da sempre poco abituate a dare coerenza e definizione alle loro creazioni, il prodotto finito, presentato fuori concorso a Venezia, è uno spaccato della gente che vive la piazza romana, tanto appassionato e partecipe in molti momenti quanto interlocutorio, o francamente discutibile, in altri.
Stupisce la varietà di soggetti umani che Abel Ferrara sceglie di inserire nel suo racconto romano. Uno dei primi e più interessanti ospiti del suo documentario è Matteo Garrone, che da anni ha scelto di vivere a Piazza Vittorio e che dentro quel milieu ha girato il suo bellissimo Estate Romana (2000). Altra figura familiare nell’immaginario ferrariano e altro inquilino illustre della piazza è Willem Dafoe, immortalato mentre si permette il lusso dell’anonimato nei piccoli negozi del quartiere. Le riprese raccontano poi tante storie di immigrazione, a cui Ferrara si sente in qualche modo legato dichiarandosi lui stesso un “migrante” in cerca di fortuna. Uno dei momenti più controversi del film è invece la lunga intervista ad alcuni attivisti di CasaPound, a cui Ferrara riserva una tribuna senza contraddittorio che, per certi aspetti, sembra appoggiare la loro causa. La sensazione, alla fine della visione, è che il documentario di Ferrara, pur come sempre generoso, non sappia bene in quale direzione andare. E le due canzoni scelte per la colonna sonora, Do Re Mi di Woody Guthrie e Chitarra Romana, nelle versioni di Claudio Villa e Gabriella Ferri, non fanno che confermare questa impressione.
Fa sempre un bell’effetto ritrovare un’opera prima tra i lungometraggi in concorso a Venezia. Quella di Xavier Legrand, Jusqu’à la garde (sviluppo del cortometraggio Avant que de tout perdre, vincitore del César nel 2014 e nominato lo stesso anno per l’Oscar) è semplicemente stratosferica.
Il meccanismo di Jusqu’à la garde è costruito attorno alle violenze domestiche legate alla separazione dei coniugi Besson (Léa Drucker e Denis Ménochet) e seguite dagli occhi di Julien, il figlio minorenne che subisce le conseguenze più dirette. Potremmo dire, pur con un certo grado di approssimazione, che il film si pone a metà strada due tradizioni: quella del cinema americano nella struttura e quella del cinema europeo nel contenuto. Tecnicamente impeccabile, Legrand non evita però anche di condannare le società contemporanee che spesso si arrogano il diritto di risolvere casi controversi applicando alla lettera leggi scritte non a misura d’uomo, ma di giudici e avvocati. Nel caso specifico è la tematica dell’affidamento dei figli, eterno campo di battaglia durante i procedimenti di divorzio, ad essere analizzato con attenzione e portato alle conseguenze più estreme.
La rappresentazione della violenza domestica, vero fulcro di tutta l’opera, è restituita in termini estremamente realistici; il merito principale va l’interpretazione degli attori, guidata da una regia consapevole, precisa e calibrata, che rispetta i tempi fisiologici delle azioni senza preoccuparsi delle convenzioni sceniche e che così facendo trascina lo spettatore dentro all’azione, dentro al dramma. Una prova di regia notevole, con cui Xavier Legrand si piazza tra i cineasti della nuova generazione da tenere d’occhio.
Veleno – Diego Olivares
La Mostra del Cinema di Venezia dovrebbe avere, tra le altre cose, l’obiettivo di dimostrare al pubblico lo stato di salute della nostra cinematografia nazionale. Chi era in sala durante la proiezione di Veleno deve aver pensato che la situazione sia piuttosto irrecuperabile.
L’intenzione nobilissima di portare sul grande schermo una storia di resistenza alla contaminazione mafiosa non trova nella pratica una degna realizzazione. L’origine di tutti i mali è una sceneggiatura a dir poco pressapochista, con un filo narrativo confuso e con personaggi completamente privi di spina dorsale. È evidente che in queste condizioni ogni altro aspetto del film degeneri irrevocabilmente. Tra tutto, però, è la recitazione degli attori a far storcere il naso in parecchie occasioni: l’eccesso di pathos trasforma ogni emozione nella sua caricatura, senza lasciare spazio alle sfumature, senza fornire allo spettatore un appiglio per provare anche un solo briciolo di empatia (in questo senso potremmo dire che la regia funziona nel modo opposto rispetto al Mektoub di Kechiche).
Il veleno a cui fa riferimento il titolo è quello dell’abusivismo legato allo smaltimento dei rifiuti da parte delle ecomafie, veleno che contamina i terreni e le generazioni e che, secondo la proposta del regista, non può essere combattuto dai singoli individui, perché chi sceglie di resistere è destinato a morire. È una tematica attualissima, che per essere davvero rispettata avrebbe meritato una trattazione ben più approfondita.