Crisi di una sinistra che non c’era
Il teatro politico di Martinelli/Montanari, Claudio Longhi e Teatro dell'Argine
Come è emerso in maniera schiacciante dall’ultima tornata elettorale, anche in Italia ormai la sinistra non se la passa più tanto bene. Si dirà: ma quella non è la Sinistra, la vera Sinistra è un’altra cosa. Già, la vera Sinistra sembra sempre essere un’altra cosa, mai quella che c’è. Ma sia, sia pure. Il problema evidentemente è a monte. Per capire se sia frantumata, ammalata, agonizzante, pugnalata, morta, rimorta o sepolta, dovremo allora prima chiederci: la Sinistra poi—che cos’è?
Senza tornare indietro fino al parlamento di Cromwell o agli Stati Generali del 1789, la classica distinzione tra Sinistra e Destra vuole che la prima sia progressista la seconda conservatrice, la prima egualitaria la seconda gerarchica, l’una insomma un po’ più aperta l’altra un po’ più chiusa. Si dice che una tale distinzione sia ormai obsoleta, che «sono categorie ottocentesche». Vero. Un po’ meno vero però è dire che, venute meno le ideologie del Novecento, siano venute meno anche le ragioni di fondo che giustificavano una visione dualistica della società. Magari funzionerà per assurgersi a immacolati paladini della nuova politica, ma è una semplificazione che non regge.
Non regge perché Destra e Sinistra non vuol dire Preti e Nobili contro Terzo Stato, Fascisti contro Comunisti, Padroni contro Operai, Xenofobi contro Filantropi, e via dicendo; Destra e Sinistra ricalcano, sì, due contrapposte concezioni politiche, però bisogna ricordare che politica oltre che valori significa anche – tanto più se siamo in una repubblica liberaldemocratica – come organizzare la propria società con le risorse che si hanno a disposizione, in una sola parola politica oggi vuol dire innanzitutto economia (basti aprire un qualunque saggio di etnobiologia o di antropologia culturale per scoprire che la questione è connaturata all’uomo).
La distinzione principale tra Destra e Sinistra, ma sarebbe meglio dire tra una politica economica liberista e una socialista, va ricercata piuttosto nell’irrisolto equilibrio tra Libertà e Uguaglianza. Come spiega J.L. Fischer, infatti, il loro
rapporto reciproco [è] antitetico: quanto più libertà, tanto meno uguaglianza e viceversa. […] Se il punto di partenza dell’attività politica è la libertà in qualsiasi sua forma, il risultato sarà la molteplicità e multiformità del movimento individuale […]. Al contrario se il punto di partenza è l’uguaglianza sociale, ne sarà conseguenza un ordine legale univoco accompagnato da un’organizzazione amministrativa univoca, centralistica.
— La crisi della democrazia (1933)
Ci ritorneremo. Basterà dire per ora che per il Liberismo prioritaria è la Libertà (declinata ovviamente in salsa mercantile-imprenditoriale), per il Socialismo invece lo è l’Uguaglianza (equità, progressività, solidarietà, tutele, assistenzialismo, ecc.).
Per capire dunque perché storicamente abbia prevalso il modello liberista, perché questo non vada confuso con le cosiddette «destre sociali» (che mescolano pericolosamente Statalismo e Nazionalismo), e pertanto perché la Sinistra tout court sia in crisi di identità e di consensi elettorali, proseguiamo il nostro focus su Teatro e Politica affacciandoci stavolta alle recenti produzioni teatrali della regione rossa per eccellenza, l’Emilia Romagna, che, ancor prima di vedersi un democristiano come Casini capolista di centrosinistra al collegio di Bologna, già da qualche mese è ritornata a interrogarsi in scena sulla propria cultura politica.
Parleremo di Martinelli/Montanari, di Longhi e di Teatro dell’Argine. Partiamo da quest’ultimo.
Una cultura senza popolo
Come suggerisce il titolo stesso, Casa del popolo ci aiuta a ripercorrere un elemento chiave della cultura italiana di sinistra, quando Sinistra voleva dire Marxismo, proletariato, Resistenza, PCI.
Sul palco dell’ITC Teatro di San Lazzaro (appena fuori Bologna), riuniti attorno a un tavolo, tre sedie, una pianta grassa e una porta rigorosamente rossa con tanto di manifesto affisso «Casa del Popolo/Leone Troschi [sic!] Maccaferri», incontriamo un’allegra masnada di omini e donnine emiliani, ardimentosi e bonari, attivisti e bontemponi, amabilmente ritratti dalle spassose caratterizzazioni di Micaela Casalboni, Giovanni Dispenza e Andrea Lupo (lo spettacolo, diretto da Andrea Paolucci, è in collaborazione con il Teatro delle Temperie, la cui sede è una ex casa del Popolo a Calcara, in Valsamoggia).
Dagli anni ’10 fino ai giorni nostri, passando per fascismo, dopoguerra, boom economico, sbarco sulla Luna, anni di piombo e tv commerciale, il testo di Nicola Bonazzi registra la parabola di una cultura in cui identità politica e spirito comunitario erano vivacemente intrecciati: l’una ammorbidendosi in magnanimità, l’altro tenendo fede a valori socialisti. Una parabola però che si conclude nello smarrimento del senso di appartenenza.
PRESIDENTE “Favorevoli tutti, contrari nessuno.”
SALAME All’inizio eravamo tutto il paese praticamente, mentre adesso saremo sì e no quattro gatti. […]
Le cose cambiano
o sono già cambiate
e forse cambieranno ancora.
Sarà mica colpa del popolo?
E qui giunge la domanda delle domande: ma quel senso si è smarrito perché si è corrotto o perché si è dimostrato obsoleto? L’epilogo ci aiuta a mettere a fuoco:
– La democrazia sta dalla parte del popolo.
E il popolo, ascolta,
il popolo siamo noi.
Noi
mica quelli,
gli altri […]
Pur assestandosi su un registro più gustosamente popolare, lo spettacolo dell’Argine centra un nervo scoperto dell’identità di Sinistra: l’antagonismo. Per vicissitudini storiche, socio-economiche, filosofiche, dai tempi della lotta di classe alla Resistenza fino alle battaglie per i diritti civili, la Sinistra ha sempre determinato la sua azione politica nell’ottica di un rovesciamento o quanto meno scardinamento dei poteri forti, dominanti, egemoni.
Solo che poco a poco, in questa logica di «necessità dell’avversario», l’avversario è diventato sempre più rarefatto e di conseguenza anche la determinazione di quella stessa identità politica è andata rarefacendosi (le lotte interne, le scissioni, la disaffezione…). Ma cos’è che accaduto?
SALAME E fuori c’è solo una gran nebbia.
E non si vede niente.
E sembra di stare in nessun posto.
In una nebbia così ci si perde.
Un popolo senza rappresentanza
È curioso notare come questa grande nebbia di incertezza con cui si chiude Casa del popolo segni anche il finale de La classe operaia va in paradiso, il nuovo spettacolo del neo-direttore dell’Emilia Romagna Teatro Claudio Longhi (produzione ERT), ispirato all’omonimo film del ’71 di Petri.
Cominciamo proprio da queste ultimissime battute:
– Dentro il muro… dall’altra parte… […] una visione tremenda […] C’era la nebbia, la nebbia…
– Sì, ma che c’era in ‘sta nebbia?
– Prima niente, poi ho cominciato a guardare… […] c’eravamo tutti e c’ero io… Ed ero un punto… Un punto come tutti voi (indica gli altri e il pubblico)… Un puntolino in quella fiumana… Poi aprivano i cancelli, la fiumana scorreva… era meglio non trovarsi nel senso contrario… rischiavi di essere travolto.
Neanche due anni dopo Petri, Fellini avrebbe lasciato smarrire il «nonno» di Amarcord in una nebbia simile:
– Ma dov’è che sono? Mi sembra di non stare in nessun posto. Mo se la morte è così… non è mica un bel lavoro. Sparito tutto: la gente, gli alberi, gli uccellini per aria, il vino. Tè cul!
Generazioni differenti, analoghi fenomeni. Vediamo nel dettaglio.
Su suggestione di Lino Guanciale, Longhi decide di tradurre in teatro il film di Petri, affidando l’adattamento allo scrittore (classe ’83) Paolo Di Paolo. Data la crisi identitaria di cui sopra, l’idea è chiara: quella storia operaia è ancora nostra? e qual è – se c’è – oggi una «classe» operaia? Come dichiara lo stesso Longhi in appendice al testo (Luca Sossella editore):
L’operazione tentata è una sorta di autopsia di un tempo perduto con tutta la commozione che quel tempo perduto riesce ancora a generare.
«Tempo perduto». «Commozione». Scorgiamo già, qui, un primo tratto della mutazione culturale della Sinistra: annebbiatosi l’avversario, dalla lotta ci si rifugia nella nostalgia.
Lombardia, secondo Novecento, Lulù Massa (Guanciale), 31 anni, è un operaio a cottimo, inviso a tutti gli altri per il suo smargiasso stachanovismo. Un giorno perde un dito sul lavoro, e l’incidente, metafora di un ritorno alla realtà, lo spinge ad accogliere le istanze di sindacalisti e studenti in rivolta, pur associandosi più per interesse personale che per piena adesione politica. Perso il posto di lavoro, si disilluderà nuovamente, per essere infine reintegrato—alienato e contento.
Pur forzando la mano, con eccessi satirici a tinte espressioniste, il film di Petri tentava di avvicinare alla realtà operaia da un lato e alle contraddizioni della Sinistra, meglio, delle Sinistre dall’altra. E ora che sono passati più di quarant’anni?
Allo Storchi il palco è dominato da un lungo nastro trasportatore: la scena si apre con un mash-up, colorito di cadenze dialettali, di operai «tipo» dal primo Novecento ai giorni nostri. Via via lo spettacolo ripercorrerà le tappe essenziali del film, intercalando conversazioni tra Petri e il co-sceneggiatore Pirro, spettatori di oggi e di allora che commentano la pellicola, brani d’autore (Amodei) cantati in platea, iconografie industriali videoproiettate sulla parete-cancellata in proscenio, inserti letterari da Sanguineti, Pagliarani o Volponi, nonché la riproposizione in contrappunto dei titoli di coda del film con il volto di Morricone che rinnesca, come un eterno ripetersi, la “meccanica” colonna sonora del film.
Uno spettacolo eterogeneo che si preoccupa molto più di giustificare le ragioni di questa quanto mai curiosa operazione teatrale che di costruire realmente un ponte con il presente. Se già confrontarsi con attori icona come Volontè, Melato e Randone appare una scommessa azzardata (Guanciale fa del suo meglio, ma la sua interpretazione è una copia s-forzata dell’originale), la sovrabbondanza di materiali costringe le scene tratte dal film a un continuo singhiozzo e a repentine accelerazioni che le rendono bizzarramente decontestualizzate e ai limiti dello splastick.
Ma ciò che davvero non convince è la scrittura: forse un drammaturgo di professione, più critico e disincantato (si pensi a un Carnevali, a un Santeramo o a un Aldrovandi) sarebbe riuscito a tradurre storicamente ai giorni nostri l’opera di Petri anziché costringerla a una cristallizzazione storico-politica alquanto nostalgica (difficile immaginare una produzione del genere, conflitto d’interessi a parte, in un altro teatro nazionale). Perché non è attuale?
Centriamo così una delle ragioni principali della crisi della Sinistra. Sempre Fischer:
Se guardiamo il marxismo dal punto di vista della sua base ideologica «materiale», quantitativa, ci appare come uno degli esiti del prototipo culturale meccanico moderno, dunque in sostanza come una foglia del capitalismo, soltanto rovesciata.
La contraddizione della Sinistra più recente è che tentando di arginare le sproporzioni di un sistema economico vorace e cieco, ha finito per avvalorarlo, fino al punto di assimilarlo. Scrive Massimo Fini:
Liberalismo e Marxismo […] hanno entrambi il mito del lavoro e sono industrialismi convinti che l’industria e la tecnica produrranno una tale cornucopia di beni da rendere felici tutti gli uomini (Marx) o, più realisticamente per i liberali, il maggior numero possibile. […] Si dividono solo sul modo di produrre e di distribuire questa ricchezza, sono come due arcate di un ponte che, apparentemente opponendosi, si sono sostenute a vicenda per due secoli.
— Il Ribelle dalla A alla Z (2006)
Ma poiché il marxismo si è rivelato un industrialismo inefficiente e quindi perdente, l’unica faccia della medaglia della modernità spendibile è rimasta quella liberale, liberista, democratica. […] È questo il pensiero unico di cui si sente tanto parlare senza peraltro sapere bene, spesso, di che cosa si tratti. I pochi che osano mettersi di traverso a questo pensiero sono bollati come inguaribili e ridicoli passatisti.
— Sudditi. Manifesto contro la democrazia (2004)
Il socialismo, insomma, quale politica economica egualitaria, assistenziale, protezionista, si è mutato geneticamente senza però abbandonare i banchi parlamentari di sinistra, venendo a creare così un’evidente confusione nell’elettorato di riferimento che non ha via via trovato più corrispondenza tra partito votato e politiche attuatesi. L’antiberlusconismo e alcune battaglie per i diritti civili si sono rivelate – a valle – lotte più di colore che di sostanza, visto che gli apparati di partito, calata la cortina di ferro, hanno smesso di contestare strutturalmente il liberismo, sposandolo de facto sotto le spinte della neonata globalizzazione. Nota De Masi:
Brodolini dette ai lavoratori lo Statuto; Renzi glielo ha tolto, ha spostato il partito dalla socialdemocrazia al neo-liberismo, espellendo le voci dissonanti.
Basterà ricordare che nel maggio del ’98 al Forum del WTO il «democratico» Clinton affermò: «La globalizzazione è un fatto e non una scelta politica»; e il «comunista» Castro: «Gridare abbasso la globalizzazione equivale a gridare abbasso la legge di gravità». Mentre intanto in Italia e nel mondo la forbice tra ricchi e poveri si andava allargando. Come ha riassunto recentemente Cacciari:
Una sinistra va in crisi laddove non abbia più gli strumenti e le possibilità, nell’epoca globale, di attingere risorse all’interno dei singoli Stati per soddisfare le richieste della propria base sociale.
Questa complessità, qui solamente accennata, ci sembra che manchi a La classe operaia va in paradiso. Di quali operai stiamo parlando: quelli di ieri, quelli di Petri, quelli di oggi? Ed è esattamente, mutatis mutandis, la stessa critica che viene mossa da anni alla cosiddetta area politica e culturale di (Centro)Sinistra, vale a dire l’incapacità di fare autocritica e di aggiornarsi conseguentemente all’evolversi della società, senza nostalgie conservatrici né improvvisi strappi.
Ed è un peccato, perché il film di Petri prefigurava altresì il passaggio da un’alienazione industriale coatta a un’alienazione consumistica accolta. Tema più che mai attuale, anche questo non sviluppato oltre l’accenno.
Proclamare il diritto all’uguaglianza in una società che ha bisogno di una massa di schiavi salariati vuol dire aver perso la testa.
— Friedrich Nietzsche
Connivenza rossa
Eppure, nonostante tutto, anche se alle urne si sente confusa o abbandondata, una buona dose di Italiani continua a dichiararsi «di Sinistra» (tanto più che l’età media è sui 45 anni). Ma cosa significa? Come per la democrazia, anche per la Sinsitra sembrano valere le parole di C.L. Becker:
È una parola che non ha referente, dal momento che non c’è nessuna precisa e palpabile cosa o oggetto al quale tutti pensano quando si pronuncia questa parola.
— Democrazia moderna (1941)
Difendere i più deboli? Distribuire in maniera equa le risorse? Accogliere il prossimo? Ma questi sono valori cristiani. È quel progressismo riformista che ripudia le rivoluzioni violente? È l’attivismo extraparlamentare? È la rivoluzione permanente trozkista? È lo statalismo, i diritti civili, la salvaguardia del bene pubblico? È un fatto di eredità culturale, di nostalgia, di fedeltà? È quel vuoto accumulo di mossette, tic e stereotipi tratteggiato ironicamente da Gaber in Destra-Sinistra?
Sempre Massimo Fini, che la Sinistra purtroppo ascolta assai meno volentieri di Gaber, insiste sul dato reale:
[ci] si divide fra destra e sinistra con la stessa razionalità con cui si tifa Roma invece che Lazio, Milan o Inter. E quando il cosiddetto «popolo della sinistra» (o della destra) scende in piazza per festeggiare qualche vittoria elettorale, ballando, cantando, saltando, gettandosi, esaltandosi, è particolarmente patetico perché i vantaggi che trae da quella vittoria sono puramente immaginari, o, nelle migliori delle ipotesi, sentimentali, mentre i ricavi reali vanno non a quegli spettatori illusi ma a chi sta giocando la partita del potere.
Con il loro ultimo spettacolo, Va Pensiero, Marco Martinelli ed Ermanna Montanari vanno a sciogliere proprio questo grumo duro di contraddizioni che contraddistingue la più recente storia della fu Sinistra italiana.
Apparentemente ci troviamo di fronte alla storia recente, anni 2000, di un piccolo comune rosso del medio Po in cui un risoluto vigile urbano (Argnani) scopre e denuncia pubblicamente il clima di collusione tra Sindaco (Montanari) e camarille ndranghetiste locali (Orrico) per un giro d’affari fraudolento che passa per faccendieri (Magnani, Mastronardi), imprenditori (Renda) e grandi aziende nazionali. Questo – minuzioso intreccio di cronaca giudiziaria e scrittura originale – è il piano base, la trama, il pre-testo.
Tuttavia, non è dell’Italia corrotta e mafiosa, ci sembra, che tratti questa nuova scrittura di Martinelli. Di storie così, in fondo, finite in arresto o finite in tragedia, ne abbiamo molte. Perché proprio questa?
Proviamo a raccogliere un po’ di segni. Il primo cittadino è una donna, figlia di «uno stalinista di ferro, uno della vecchia guardia», «“un” uomo, che ha governato per vent’anni la città con un polso, con una disciplina… due palle così!». Non voleva fare il sindaco, lei, ma è stata «imposta al partito», «non si è mai sposata», è «sempre stata nervosa e smorfiosa» (sembra lo speculare opposto di Aung San Suu Kyi, protagonista dello spettacolo Vita agli arresti del 2014, film nel ’17).
E come ci si presenta? Lo spettacolo si apre proprio con la sua figura, rigida ma barcollante, che taglia a gran fatica il palco, una scena scura, spoglia, morta: sembra fuggire da una muta invisibile di anime che la braccano come i fantasmi delle vittime di Riccardo III, è colta da conati, crolla. Non sembra questo il ritratto di un’eredità politica patita e tradita, orfana e sterile?
Oppure. La lava videoproiettata sul velatino del fondale (già presente nell’Inferno della scorsa estate), dal rosso pallido, inerte, raffreddato, vischioso e invischiato, non rappresenta forse il fatale tramonto del «sol dell’avvenire»? E i drappi inequivocabilmente rossi delle quinte (all’Arena di Bologna i velluti sono solitamente carta da zucchero) che incorniciano e abbracciano questa storia di corruzione, non sono un rimando allo scandalo delle cooperative rosse? E il vecchio compagnone Olmo Tassinari (Parmiani), più rosso di vino che di azione, che ha il pallino di sterminare quelle bestiacce “non autoctone” delle nutrie, non ricorda quei vecchi soi-disant comunisti emiliani che oggi parlano di sparare agli immigrati (sensazionalismo giornalistico a parte)?
Eppure Martinelli non sembra puntare tanto a una condanna tout court delle ipocrisie della Sinistra (cui egli stesso può essere ascritto: si ricordi che il Teatro delle Albe, da un punto di vista societario, è una cooperativa), il regista romagnolo piuttosto tenta con grande lucidità di restituire fin nei suoi nodi più nascosti e dolorosi l’intricatissimo scenario di una società che, socialismo o non socialismo, finisce per tradire la fiducia dei tanti per favorire l’interesse dei pochi. Come scriveva Gaetano Mosca:
Cento, che agiscano sempre di concerto e d’intesa gli uni con gli altri, trionferanno su mille presi ad uno ad uno e che non avranno alcun accordo fra loro.
— Storia delle dottrine politiche (1937)
Ci si è illusi che l’adesione politica fosse illuminata, incondizionata, sincera. Ma la storia non è più statica. L’avvento del benessere e del liberalismo ha cambiato le carte in tavola, ed ecco che poco a poco da un collettivismo di necessità si è passati volentieri a un corporativismo di interesse, con tanti cari saluti ai nobili principî. Il monologo del Sindaco ne è un perfetto esempio:
– A quale principio morale, a quale Legge dovrei sottostare? Ai Dieci Comandamenti? […] Ma chi ci crede veramente, oggi, chi? […] Voi… voi ci credete? Intendo, ci credete davvero? Provate a dirmi: […] se non rubate e non ammazzate, è perché avete queste Tavole della Legge scolpite nel cuore? O è perché, banalmente, non vi conviene? Perché poi verreste puniti? Perché avete paura?
Con sottigliezza decisamente dostoevskijana, Martinelli qui tira una bruciante stoccata a quella superiorità morale di cui la Sinistra per anni si è autoproclamata paladina per poi riscoprirsi infine tutt’altro che impermeabile al dolo; e per di più – contrappasso spietato – vedersi scavalcata da chi sta facendo dell’«onestà» il suo cavallo di battaglia. Avrebbe chiosato Stirner: «La fede morale non è meno fanatica della fede religiosa». Similes cum similibus.
Ma quel «principio», quel buon freno non crediamo vada cercato in un senso morale, né in un argine storicamente socialista, né tanto meno in un’identità culturale: proprio questo è l’errore capitale che ha sprofondato la Sinistra (italiana e non solo) in una crisi nera. Martinelli non lo sviluppa compiutamente ma lo intuisce senz’altro, quel sano limite è una cosa reale, concreta, concretissima, più verificabile dei numeri, si chiama «ambiente»:
I settori sviluppati dalle nostre società industriali devono la propria condizione ancor più che al genio tecnologico e allo spirito d’impresa alla schiavitù e alla devastazione dell’ambiente.
— Yves Cochet Pétrole apocalypse (2005)
La nostra avidità (sia di potere, fama, denaro…) non ci ritorna indietro per chissà quale giustizia, divina o laica che sia, ma perché ciò che corrompiamo è quella stessa natura che consente a noi organismi pluricellulari di poter continuare a rinnovare le nostre cellule. Dovrebbe essere la nostra prima preoccupazione e invece niente, puff, scomparso: roba da ecologisti.
DOTTORE Sai, quella zona dove hanno in progetto di costruire la centrale… beh c’è una cosa strana. […] una sequenza da far paura: lì ho trovato un tumore al seno, là uno alla prostata, in quell’altra uno ai polmoni, in quell’altra ancora una leucemia. E’ strano, no?
Siamo un mondo. Ci piaccia o meno. Possiamo rifarci a questa o a quella cultura, possiamo perfino identificarci in essa dogmaticamente, ma il mondo sempre quello rimane: indifferente alle nostre misere schermaglie. E così quel coro, che attende silente sul fondale, oltre il velatino, pronto a richiamare un senso del teatro come fenomeno sociale nel segno delle arie di Verdi (tanto più che parliamo di un coro plurale, collettivo, «amatoriale», quale il lirico «Alessandro Bonci» di Cesena), sta lì per restituire una dimensione epica a questo canto dolente ed eroico che è la storia del nostro tempo. E pur canta, canta ancora, perché ancora si può cantare—parrebbe dirci questo Va pensiero.
Considerando la diffusa innocuità delle grandi produzioni degli stabili italiani, vedere un Teatro Nazionale (ERT insieme a Ravenna Teatro) sostenere un lavoro così stratificato e al tempo stesso accessibile è sicuramente un buon segnale. C’è da augurarsi che non rimanga un caso isolato, ché il livello di confusione generale è alto. Anche il teatro è stretto tra spirito nostalgico e bolle passeggere. Anche il teatro, dato il suo breve perimetro, soffre tremendamente di corporativismo: io appoggio te, tu appoggi lui, lui appoggia me. Uno spalleggiamento mortifero che sta seguendo lo stesso destino della Sinistra.
Martinelli e Montanari ci offrono uno spettacolo diverso: quello di una cultura che giunge finalmente a criticare sé stessa, profondamente, senza fare né farsi sconti.
Credo che in un periodo come questo, politologi e militanti (quelli con una passione per la cosa comune) abbiano il compito di esprimere forte e chiaro pubblicamente ciò che pensano. Devono criticare il presente e ricordare alla gente che sono esistite epoche storiche in cui l’uomo è stato diverso, in cui ha agito in modo storicamente creativo, in cui ha agito come istituente.
— Cornelius Castoriadis Une société à la dérive, entretiens et débats 1974-1997 (2005)
Ascolto consigliato
In apertura: Antony Gormley Field for the British Isles (1996). ©Gormley
CASA DEL POPOLO
di Nicola Bonazzi
da un’idea di Andrea Lupo
con Micaela Casalboni, Giovanni Dispenza, Andrea Lupo
scene Carmela Delle Curti
aiuto regia Mattia De Luca
regia Andrea Paolucci
uno spettacolo del Teatro dell’Argine
in collaborazione con il Teatro delle Temperie
ITC tetatro, San Lazzaro (BO) – 10 dicembre 2017
LA CLASSE OPERAIA VA IN PARADISO
liberamente tratto dal film di Elio Petri
(scenaggiatura Elio Petri e Ugo Pirro)
di Paolo Di Paolo
regia Claudio Longhi
con Donatella Allegro, Nicola Bortolotti, Michele Dell’Utri, Simone Francia, Lino Guanciale, Diana Manea, Eugenio Papalia, Franca Penone, Simone Tangolo, Filippo Zattini (musiche)
scene Guia Buzzi
costumi Gianluca Sbicca
luci Vincenzo Bonaffini
video Riccardo Frati
musiche e arrangiamenti Filippo Zattini
regista assistente Giacomo Pedini
assistente alla regia volontario Daniel Vincenzo Papa De Dios
produzione ERT – Emilia Romagna Teatro Fondazione
Teatro Storchi, Modena – 1 febbraio 2018
VA’ PENSIERO
di Marco Martinelli
ideazione e regia Marco Martinelli e Ermanna Montanari
in scena Ermanna Montanari, Alessandro Argnani, Salvatore Caruso, Tonia Garante, Roberto Magnani, Mirella Mastronardi, Ernesto Orrico, Gianni Parmiani, Laura Redaelli, Alessandro Renda
con la partecipazione del Coro lirico Alessandro Bonci di Cesena
nell’esecuzione di alcuni brani dalle opere di Giuseppe Verdi
soprani Cinzia Barducco, Ilaria Capelli, Maria Loria, Tiziana Lugaresi, Bianca Padurean, Sabrina Rossi, Deborah Salvi
contralti Livia Arginelli, Gabriella Fiumana, Valeria Intrusi, Raffaella Molari, Carla Righi, Silvia Sintini
tenori Daniele Ambrosini, Renato Bartolini, Salvatore Campus, Vilmer Castorri, Ermico Diavino, Gaspare Giovannini, Giuseppe Magnani, Valter Salvi, Pietro Terranova bassi Corrado De Cesari, Marcantonio Pistoresi, Andriy Schchrbyna
solista Francesca Castorri
maestro collaboratore Ilaria Ceccarelli
per le repliche di Milano e Bergamo, sostituito dal coro “Gli Harmonici” di Bergamo diretto dal Maestro Fabio Alberti
arrangiamento e adattamenti musicali, accompagnatore e maestro del coro Stefano Nanni
incursioni sceniche Fagio, Luca Pagliano
scene Edoardo Sanchi
costumi Giada Masi
disegno luci Fabio Sajiz
musiche originali Marco Olivieri
suono Marco Olivieri, Fagio
consulenza musicale Gerardo Guccini
editing video Alessandro Renda
assistente alle scene Carla Conti Guglia
tecnico luci Luca Pagliano
macchinista Danilo Maniscalco
elementi di scena realizzati dalla squadra tecnica del Teatro delle Albe Alessandro Bonoli, Fabio Ceroni, Enrico Isola, Danilo Maniscalco, Dennis Masotti
direzione tecnica Fagio
sartoria Laura Graziani Alta Moda
capi vintage A.N.G.E.L.O.
fotografie dello spettacolo Silvia Lelli
ufficio stampa Rosalba Ruggeri, Alessandro Fogli, Silvia Pacciarini
organizzazione e promozione Silvia Pagliano, Francesca Venturi
produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione e Teatro delle Albe / Ravenna Teatro
Arena del Sole, Bologna – 23 febbraio 2018