Connexions tra De Chirico e Casorati
Ottaviucci sperimenta la connessione della diversità
Curioso come le parole cambino nel tempo, il loro significato soprattutto, o meglio, l’uso che ne facciamo. Prendete ad esempio la parola connessione: a chiunque oggigiorno verrà subito in mente Internet, comprensibilmente. Eppure la voce connesso esiste da assai prima che il Web entrasse nelle nostre vite. L’origine è cumnèctere, ovvero mettere assieme più nessi, dove nesso a sua volta sta per legame; insomma connettere significa innanzitutto intrecciare, unire saldamente tra di loro più trame.
Ed è proprio da qui, da quest’arte primigenia di tessitura di diversità che dobbiamo partire per scoprire le Connexions del pianista, compositore e raffinato interprete della musica contemporanea Fabrizo Ottaviucci. Non certo da erudite elucubrazioni intellettuali. Già, perché quando si parla di sperimentazione troppo spesso si pensa a qualcosa di estremamente complesso, cólto, elitario, impenetrabile, mentre la sperimentazione nasce proprio da quelle stesse domande che attraversano e caratterizzano la vita di tutti. Solo incanalate in maniera diversa.
Uno strumento musicale in fondo è un corpo: un mezzo potenzialmente duttilissimo che però ha bisogno di essere compreso, esplorato, padroneggiato. Ecco, proprio come uno sportivo o un danzatore, lo sperimentatore musicale è colui che non si accontenta dei rudimenti più pragmatici del suo corpo (palleggiare, piroettare o suonare una canzone), ma che vuole scoprire cos’altro può scaturire da quel mezzo: non come usarlo bensì come creare attraverso di esso.
E Ottaviucci questo fa: connessione e sperimentazione. Mette in contatto cioè corpi-strumenti diversi e chiede loro di andare oltre l’esecuzione: ascoltandosi, integrandosi, fondendosi a vicenda, così da creare insieme inaspettatamente, ossia improvvisando, qualcosa che nessuno ancora conosce e che individualmente non potrebbe neanche concepire.
Così, al primo piano della Galleria d’Arte Moderna di Roma, fra le tele di altrettanti sperimentatori come De Chirico, Ferrazzi, Gentilini e Casorati (mostra Affinità Elettive), troviamo cinque musicisti (trombone, percussioni, contrabbasso, sax tenore e contralto) e tre attori, di diversa età, esperienza e provenienza. Ottaviucci è al centro, non come direttore però, piuttosto come “orecchio lungimirante” che coglie l’inattesa creazione, tenta di comprenderla, stimolarla, suggerirle evoluzioni, senza infatti mai forzare una forma.
Così vuoto e pieno si rincorrono, continuamente, scrutandosi all’orizzonte del possibile tra repentine baraonde, esitazioni formicolanti e accessi di armonia, imprevista, insondabile, fragile pertanto preziosa. E in questo Ottaviucci è particolarmente sensibile, perché quando il ritmo rallenta, le fughe si spengono e i musicisti incerti sul da farsi cominciano a scambiarsi occhiate furtive come in attesa di indicazioni, egli prolunga quel silenzio, congiunge le mani, socchiude le palpebre: ascolta e attende, senza fretta, il nuovo guizzo improvvisativo da cui sviluppare una nuova evoluzione. Ed è chiaro: anche quel silenzio carico d’attesa è un suono, quello stesso silenzio è connessione.
D’altronde il fatto più interessante di questa jam session dadaista è probabilmente il suo risvolto antropologico, per così dire. Uscendo infatti dal compartimento stagno di categoria musica e guardando a questo esperimento con distacco critico, ciò cui si assiste è dopotutto un gioco di società: proprio come nella vita di tutti i giorni troviamo per l’appunto chi è più timido, chi intraprendente, chi preciso, chi generoso, chi creativo, e via dicendo. Ognuno diverso eppure indispensabile, prendendo così poco a poco fiducia tanto negli altri quanto nell’atto stesso di creazione collettiva.
Curioso a questo proposito la presenza degli attori (soprattutto le due attrici) che, liberati a loro volta dalla convenzione teatro, ruminano le parole, le stendono, le staccano, le sibilano, le nascondono, le suggeriscono con suoni comuni o addirittura armonici. Portandoci a riscoprire che parlare è innanzitutto emettere suoni: voce non parole.
Anziché affidarci a un mezzo convenzionale, involontario e automatico, forse per stabilire una vera connessione dovremmo ripartire proprio dalla capacità di saperci ascoltare.
Letture consigliate:
La responsabilità della conoscenza, ovvero Ottaviucci demiurgo delle sonate di Cage, di Giulio Sonno
Nel cerchio magico del Tifone con Chiara Guidi e Fabrizio Ottaviucci, di Giulio Sonno
Fabrizio Ottaviucci suona Giacinto Scelsi, in DNA Appunti critici di Giulio Sonno
Galleria d’Arte Moderna, Roma – 22 dicembre 2015