Intrattenimento o cultura?
A Lari Collinarea Festival XVII
Intrattenimento o cultura? Chi batte quotidianamente la strada dell’arte non ci pensa proprio a separare le due cose, ma il cittadino medio, preso da tutt’altre urgenze, è portato a distinguere ciò che gli è strettamente necessario da ciò che invece gli appare più come un lusso. Non a caso, una delle affermazioni più ricorrenti è: “Sì, va bene la cultura, ma chi me lo fa fare di spendere soldi per andare a vedere una cosa che non capisco e che magari mi annoia pure?”
Dal teatro, infatti, si pretende innanzitutto l’emozione. Pretesa sacrosanta. Peccato però che nella società edonista ammalata di consumi si dimentichi facilmente che anche il fastidio, la repulsione o il disgusto, per esempio, sono delle emozioni. Etimologia vuole, d’altronde, che intrattenere stia per tenere intra, cioè “fare indugiare”, “ritardare”, “tenere a bada”: cosa? La fretta, diremmo noi. Intrattenimento insomma è tutto ciò che ci porta a posticipare i nostri presunti inderogabili impegni per dedicarci a un’attività altra. E a pensarci bene, la vita non è altro che intrattenimento dalla morte.
Dunque, per riprendere il precedente articolo, perché dedicarsi al teatro? Per intrattenersi con una possibile rappresentazione (gr. phantasia) della vita, magari, perché da quell’intrattenimento possa nascere una cultura (leggi crescita). E il festival Collinarea intende agire proprio in questa senso. Seguendo la tradizione famigliare di compagnia di giro, Loris Seghizzi, direttore artistico della rassegna di Lari, svincola la cultura da intrattenimento colto per pochi e la trasporta nella dimensione di festa, cioè di tempo altro che offra un’occasione per osservare la realtà con un diverso sguardo.
Assistiamo così a spettacoli che mediano fra ricerca estetica e narrazione. Sabato 25 luglio si comincia con un piccolo studio ispirato a La grammatica della fantasia di Rodari, monologo leggero in stile simil-Peanuts (con tanto di silenzioso pianista, su piano minuscolo, à la Schroeder), che sembra quasi offrire uno scanzonato lessico di base per gli spettacoli a seguire. Ci avviamo così al castelletto che domina il profilo del borgo, dove troviamo un gruppo di attori non professionisti truccati con volti ferrigni: va in scena il Povero Piero (frutto dei laboratori di Scenica Frammenti, curati da Seghizzi) di Campanile. Esilarante commedia degli equivoci che gioca e ironizza sulle ipocrisie del lutto, il Povero P. scatena continue risa, scrosci di applausi e irrefrenabili commenti a mezza voce; talmente genuini da far piacere. Ci tornano infatti alla mente, per contrasto, gli stolidi indignados che lo scorso dicembre con plateale boria farfugliavano di blasfemia di fronte al Natale in Casa di Cupiello di Latella. Che splendida differenza!
La serata prosegue poi con gli spettacoli delle giovani Alice Conti e Carolina Balucani (che per l’occasione hanno curato l’una la regia dell’altra; scambio particolarmente apprezzabile nello spettacolo di Conti). La prima porta in scena la vita della cantante inglese Amy Winehouse, o meglio, la sua passione, una sorta di anticamera della morte, un limbo esistenziale in cui tra alcol, musica (dal vivo) e mondi immaginati si consuma il dramma interiore di un’artista erosa da un incolmabile vuoto di affetto.
L’America dentro, invece, meno immediato ma decisamente più penetrante nella sua scarnezza, ci mostra una bolla di felicità stereotipata – il sogno (consumista) americano – che marcisce dal suo interno: il piano è una lapide di marmo verde, la maschera un vestito rosa confetto, la verità una voce semi-cadaverica. Sembra mancare tuttavia un’evoluzione che inneschi un coinvolgimento più diretto; inoltre, l’ambientazione fine ’80 inizio ’90 (le musiche di Badalamenti ricordano subito il Lynch di quegli anni) infonde una certa impressione di obsolescenza.
Il 26 prosegue con il teatro infanzia della Compagnia TPO – Farfalle – che ci immerge in un coloratissimo microcosmo, alla scoperta della metamorfosi, perfetta per i più piccoli, da bruco a farfalla: accattivanti le videoproiezioni interattive, con cui i bambini vengono invitati a giocare, ma manca forse una consistenza drammaturgica e la grafica tradisce un gusto un po’ superato.
Ci spostiamo poi all’aperto per lo spetacolo-danza di Silvia Battaglio (produzione Zerogrammi). Vestito sbarazzino, codini crespi sulla nuca, mele rosse ai suoi piedi: è Lolita, l’icona della preadolscenza traviata. Per quanto brillante nella sua interpretazione, Battaglio convince meno nell’impostazione drammaturgica: il perno dell’omonimo romanzo di Nabokov, d’altronde, non è affatto Lolita ma il protagonista-narratore Humbert e i suoi “composti” perversi istinti, costantemente giustificati nella propria confessione; chi non conosce il testo probabilmente faticherà un po’ a cogliere il vero dramma. Lo spettacolo tuttavia regala una scena trasversalmente magnetica quando le due facce di Humbert si sovrappongono nel corpo della performer in una perturbante citazione del lupo cattivo travestito da nonna di Capuccetto Rosso.
La serata di domenica, infine, si chiude con la compagnia Magnifico Visbaal che , fisarmonica e voce, gestualità e canti, evoca la storia di Fosco il matto, intrecciando in un racconto le liriche di alcune canzoni in dialetto di Modugno.
Per allargare la partecipazione, insomma, a Collinarea si decide di puntare sulla narrazione, recuperando una delle matrici principali del teatro, quella del racconto, dell’oralità, del rapporto diretto. E l’affluenza popolare è notevole (pochi gli specialisti-addetti ai lavori), confermando ancora una volta la capacità di aggregazione del teatro. Non rimane che un dubbio: cosa accade una volta che l’intra-ttenimento si è concluso? Cosa resta?
Ascolto consigliato
Lari (PI) – 25-26 luglio 2015