Con il precedente Narrow Stairs, uscito nel 2008, i Death Cab For Cutie si resero protagonisti di un fenomeno sociologico interessante. Stampa, blogs e fans si sprecarono in elogi per un album che, dopo qualche mese, risultò essere un fake circolante su internet, prodotto da una band semisconosciuta chiamata Velveteen. L'imperatore è nudo? L'elitaria working class dell'indie, notoriamente puntigliosa e fiera della propria sterminata conoscenza di nomi, formazioni e anni di pubblicazione, non riesce in realtà a distinguere un'autoproduzione, al limite del lo-fi, di capaci imitatori teutonici dalla super-produzione major di una band che, nel bene e nel male, ha finito con l’incarnare il prototipo della rock band alternative USA di successo?
Codes and Keys, il nuovo disco dei Death Cab For Cutie, si disinteressa delle possibili, divertenti, risposte a questa domanda, soprattutto perché sembra il primo disco della band davvero rivolto ad un pubblico più ampio, almeno nelle intenzioni. Le asperità ormai completamente levigate, gli spazi aperti, linee vocali e testi meno inclini all'autocommiserazione. Del resto, Ben Gibbard si deve essere ritrovato alle strette: dopo aver sposato Zooey Deschanel probabilmente non poteva più interpretare la parte del ragazzo sensibile, timido e ferito risultando del tutto credibile.
L'iniziale Home Is a Fire lascia ben sperare, introducendo gli elementi che costituiranno le sonorità principali dell'intero album, sintetizzabile in un alternative pop/rock screziato maggiormente da accenni elettronici rispetto al passato. Drum machines e sintetizzatori restano comunque uno sfondo, su cui continua a dominare la voce di Gibbard che ha ormai abbandonato l’intimismo e la schiettezza degli esordi. Se la band, prima dell'uscita del disco, citava Brian Eno come una delle influenze principali per Codes and Keys, tale assonanza non va ricercata tanto nelle rare textures ambient presenti (l'inizio di Unobstructed Views, ad esempio), quanto nella ricerca di una produzione pop ampia e multi-stratificata, in questo caso curata nientemeno che da Alan Moulder, già all'opera con i Depeche Mode.
Il risultato finale è deludente, anche senza rievocare alcuni splendidi esempi che gli stessi Death Cab For Cutie hanno prodotto in passato, pur con una formula non molto distante da quella attuale. Codes and Keys suona distaccato, paradossalmente appiattito da riverberi aeroportuali e onnipresenti che stonano con le rievocazioni domestiche dei testi, addirittura scialbo e banale in più punti. Lo stucchevole riff di chitarra iniziale di You Are a Tourist (vagamente Float On dei Modest Mouse), l'inutile ripetitività di Some Boys, gli Strokes intrappolati nel remake di Tron in Doors Unlocked and Open, i fantasmi Coldplay della title track, i ritornelli ai limiti dell'auto-parodia di Monday Morning e Underneath the Sycamore, tutti elementi di un disco semplicissimo da dimenticare e che fallisce proprio in quello che dovrebbe essere il fondamento principale della musica pop: la scrittura delle canzoni.
Per lo meno, mi resta la consolazione, nel caso qualche irriducibile fan dovesse accusarmi di aver ascoltato il disco sbagliato (come spesso accade in queste occasioni), di potermi permettere di rispondere senza remore: E tu?.