Cinquanta sfumature di grigio – Sam Taylor-Johnson
Eccoci al cinema, pronti per la visione di Cinquanta sfumature di grigio, l'attesissima trasposizione dell'omonimo romanzo/caso letterario da più di cento milioni di copie di una scrittrice (così si dice) inglese, E. L. James (pseudonimo di Erika Leonard). Un successo clamoroso e invadente, così tanto che la trama del libro, in tutta la sua esibita non originalità, è entrata a grandi linee anche nelle teste di coloro che non hanno mai osato addentrarsi in tale lettura (un volume, tra l'altro, piuttosto corposo: 548 pagine, non lontano dal numero di quelle dei Demoni di Dostoevskij): Anastasia Steele, una timida e graziosa studentessa di letteratura inglese della Washington State University di Vancouver (Washington), intervista per conto di terzi Christian Grey, amministratore delegato della Grey Enterprises Holdings Inc., ventisettenne ricchissimo e attraente, dall’aria severa e ammiccante. Fra i due si stabilisce un inaspettato feeling, qualcosa di molto simile all'inizio di una potenziale relazione.
Ma la nostra gioisce troppo presto, e, pudica e naif come una novella Jane Austen, non pensa affatto che alcune persone possono essere nel privato un pochino più torbide e perverse di altre. Come Mr Grey, appunto, che si rivela master amante del sadomaso, completamente disinteressato a qualsiasi storia d’amore. Lui semplicemente «scopa, e forte» (Mr Grey dixit). Una passione che esercita scrupolosamente in una scura stanza del suo splendido appartamento, piena di strumenti alquanto estremi, in cui gioca in maniera abbastanza brutale con le sue amanti più che favorevoli al masochismo. Ma la ragazza, perdutamente innamorata, seppur a modo suo e dopo molte sconvolte titubanze, si lascia coinvolgere parzialmente in questa spirale. Intanto Christian, grazie a lei, con tutti i suoi limiti, scopre un inedito lato quasi sentimentale, fino ad arrivare a confessare la probabile origine della propria cupa inclinazione.
Adesso ci siamo accomodati ai nostri posti in sala, manca ancora qualche minuto all'inizio. In attesa che lo schermo prenda vita e si riempia finalmente del contorto e scandaloso eros che tanto ha dato linfa al libro, abbiamo deciso di ingannare il tempo con qualche riflessione. Ovvero: il film sarà brutto o insulso come il romanzo? Ci diamo immediatamente la risposta: non è mica detto. Pensiamo a Luis Buñuel, quando nel 1967 trasse da un'opera letteraria non proprio eccezionale di Joseph Kessel uno dei suoi capolavori, Bella di giorno. Ci vuole speranza e fiducia.
Altra domanda, al di là del rapporto fra testo e schermo: che cosa dobbiamo aspettarci da questo film? Forse siamo un po' estremi e rigidi, ma, secondo noi, pellicole di questo genere - che trattano, insomma, argomenti estremi o morbosamente peculiari come il sadomaso, il masochismo e sugosi dintorni - per essere degne di nota, per non passare stilisticamente inosservate, devono essere o capolavori (o almeno creazioni interessanti, perlomeno in parte) o involontariamente brutte, sì, ma con un certo metodo, ovvero trash. Nel primo caso cioè i capolavori o quasi – abbiamo alcuni esempi (forse fin troppo illustri), come Ecco l'impero dei sensi (1976) di Nagisa Oshima e, più recentemente, i due volumi di Nymphomaniac di Lars Von Trier. Poi, sempre nella sezione capolavori o quasi, ci sono quei piacevoli e strani casi nati da un perfetto incrocio fra il demenziale, la satira più corrosiva e il grottesco. Ci viene in mente a tal proposito una scena del Fantasma della libertà (1978) di Buñuel, in cui, in uno sperduto albergo, un povero masochista chiede pateticamente alla propria mistress di essere frustato sul sedere nudo (per la precisione la richiesta disperata che le fa è: «Picchia puttanaccia!»), il tutto di fronte a un piccolo, attonito pubblico composto anche da frati, più imbarazzati che inorriditi. Tuttavia un nostro sesto senso cinematografico ci fa intuire che la regista, Sam Taylor-Johnson, non deve avere proprio il piglio dei tre artisti appena citati. Ma forse questo è solo un nostro pregiudizio.
Andiamo avanti: non pochi gli esempi appartenenti al secondo caso, quello del trash più puro, acceso e sublime, spesso volontario. Pensiamo ad alcune visioni forti di certi film della commedia sexy all'italiana, come la sequenza onirica di La dottoressa ci sta col colonnello (1980), in cui il protagonista Lino Banfi e Nadia Cassini si ritrovano in una sottospecie di orgia con fruste, frustini e abiti bondage. Di una bruttezza rigenerante e fantasiosa. Ma soprattutto, assolutamente voluta. Impossibile da dimenticare. Un orrore con personalità.
Finalmente il film comincia. Riprendiamo a riflettere dopo.
Dopo 125 minuti
Il film è finito, e, a dir la verità, la delusione è molta, grande come le particolari e torbide pulsioni di Christian Grey (Jamie Dornan) vasta come l’amore che Anastasia (Dakota Johnson) prova per il suo bel tenebroso. Adesso lo possiamo confermare, avevamo avuto ragione: Sam Taylor-Johnson non è né Oshima, né Lars Von Trier e manco Buñuel. Queste cinquanta sfumature non sono proprio L'impero dei sensi, ecco. Dunque? Beh, c'è l'altra strada, l’altra opzione. Insomma, sarà un film trash, forse. No. Nemmeno quello, nemmeno un po'. E allora di che si tratta? Semplice: di nulla. Questo film non è proprio niente. Insomma: che non-film questo film! Insipido, banale, privo di eros pur disponendo di due bellocci occupati in azioni non proprio da educande, che non vive e nemmeno esiste. Forse ogni tanto ci prova, ma senza successo. Tutto in questa opera (eh) è al posto giusto per dare voce, forma e sostanza alla normalità più suprema, alla banalità più scaltra e meticolosa.
Eppure ci sarebbero diversi spunti che avrebbero potuto rendere questo Cinquanta sfumature pieno di visioni perlomeno gustosamente orrende. Ad esempio, la stanza segreta di Mr Grey, in mano a un regista maldestramente incapace ma comunque presente, aveva tutto in regola per trasmettere diversi palpiti di natura prettamente ridicola. E invece, questo cuore di tenebra (scusi, Conrad) della sua casa di paradisiaco capitalismo, questo fibrillante e organizzatissimo Es freudiano del suo appartamento, questa riserva di ascendenza sadiana delle sue finissime zozzerie più radicali non è altro che una specie di ripostiglio in severo neobarocco dove non c'è alcun sapore. Quando, verso il finale, Christian Grey nel suo nido dà sei (né di meno né di più) colpi di frusta all'innamorata pare in realtà che stia cercando di scacciare con modi epici e monumentali una mosca - o qualsiasi altro molesto insetto - dalle sue natiche ignude. Ma tutto questo non è buffo, non fa ridere: il film, ci teniamo a ripeterlo, non rinuncia mai alla propria ossessione per la piattezza.
Ogni tanto, ad essere sinceri, la pellicola gira con vaghezza intorno al trash, senza però mai agguantarlo e farlo suo, finendo per essere, al massimo, un'operazione soltanto un pochino ridicola. A momenti, però - e forse questa è la cosa più irritante - il film prova a svegliarsi dal proprio nulla, ma nel modo sbagliato. Si avanza, cioè, qualche timida pretesa artistica, come le nuvole grigie nell'incipit, rimando di plumbea poesia (certo, come no) al cognome del protagonista e al colore del titolo. O, ancora peggio, come nella sequenza del primo amplesso della coppia nella camera da letto di lui, in cui, con falso virtuosismo, la regia si sposta dal basso verso l'alto senza alcuno stacco dal corpo dei due ragazzi al soffitto, dove una sorta di specchio opaco riflette le loro sagome nude. Un occhio filmico (?) che fa pensare a certe acrobazie della macchina da presa di un Ophüls o di un Fassbinder fagocitate, sequestrate, e terribilmente rielaborate dai direttori di Grazia, Donna moderna o Chi.
Mentre ci riprendiamo dalla fatica di aver atteso invano un momento di puro trash, e dopo aver deciso di vedere queste Cinquanta sfumature come il prodotto di un Muccino un poco più osé del solito, usciamo dal cinema con in testa un bell'ossimoro: che questo film è degno di nota proprio perché non è degno di nota, sorprende perché non è affatto sorprendente.