Abbandonarsi all’orrore
Danio Manfredini e il suo Cinema Cielo
Il libro è qui, straordinario, oscuro, impubblicabile, inevitabile. A mio parere è l’evento della nostra epoca. Mi disgusta, mi repelle, mi turba. Lo sguardo di Jean Genet mi avvolge e mi imbarazza. Lui però ha ragione, mentre il resto del mondo ha torto.
Jean Cocteau sintetizza perfettamente quella che è l’essenza di Notre-Dame-des-Fleurs, attraente e ripugnante romanzo di Jean Genet. Nelle pagine dello scrittore parigino, infatti, si scorge un universo ombroso, decadente, passionale e criminale; in cui l’uomo, celebrato, dissacrato e dissacrante, diviene il protagonista assoluto di un freak show ipnotico quanto nauseante.
Proprio questo testo diventa quasi un’ossessione-maledizione per Danio Manfredini, che su di esso ci lavora per trarne una sceneggiatura di un film che non vedrà mai la luce. Ma se da un lato rimane innegabile la curiosità verso quella che avrebbe potuto essere una trasposizione cinematografica di tal portata, dall’altro è impossibile non costatare il giovamento che il mondo teatrale ottiene quando Manfredini decide di utilizzare il suo materiale per produrre uno spettacolo – Cinema Cielo – divenuto nel corso degli anni un cult, e che valse all’attore e regista lombardo il Premio UBU per la regia nel 2004.
L’approccio di Manfredini nei confronti di Notre-Dame, però, non è quello analitico di uno studioso, ma piuttosto quello di un amante in balia di un romanzo dal quale si nutre ed elabora le proprie visioni per poi reincarnarle. Un’impresa ardua se consideriamo la già citata natura dell’opera, ma, d’altronde, Genet è molto chiaro quando ripete più volte nelle sue pagine che «il solo modo per evitare l’orrore dell’orrore è abbandonarsi a esso». Grazie a questo totale abbandono, dunque, Manfredini non solo ci restituisce le atmosfere del romanzo ma fa un passo oltre, invitandoci a intraprendere il suo stesso viaggio interiore in un’operazione che definire meta-teatrale sarebbe alquanto riduttivo.
Ma procediamo per ordine. Su un velo è proiettata l’immagine del Cinema Cielo, un cinema a luci rosse realmente esistito a Milano e ormai distrutto. Davanti a esso c’è una prostituta a caccia di clienti (Manfredini). Le ali rosse che spuntano dalla sua schiena le fanno assumere le sembianze di un angelo – letteralmente scaraventato sulla Terra – che con la sua indole esistenzialista indaga l’assurdità dello stare al mondo e ci traghetta, da buon Caronte, in un inferno che non ha scelto, ma del quale non può più fare a meno.
Ben presto il velo lascia spazio a un palcoscenico occupato dalla sgangherata platea del cinema, luogo di temporanea alienazione che qui, al contrario, diviene di permanente aggregazione per un’umanità che trova nella pratica sessuale l’unico slancio vitale della propria esistenza. I reietti che popolano la sala stanno guardando proprio Notre-Dame di Genet, ma il film è solo una traccia sonora con una connessione con ciò che avviene in scena, mentre là, dove dovrebbe esserci lo schermo con le immagini della pellicola, ci siamo noi, seduti ai nostri posti. Due mondi che si scrutano per tutta la durata della messinscena e aprono profondi interrogativi.
Siamo noi (pubblico) che guardiamo i personaggi in scena o sono loro che guardano noi? Siamo noi che accettiamo quella eccentrica realtà così distante dalla nostra, o sono loro che accettano le persone che li hanno “esiliati” in quella sala cinematografica? Ed è proprio quando questo gioco di specchi diventa comprensibile che la proprietà del porno emerge e, dunque, il soggetto – sia esso il pubblico o i personaggi in scena – si mescola e fonde con il suo oggetto del desiderio creando smarrimento, totale abbandono.
Un cortocircuito che annulla tutte le distanze tra palco e pubblico, inghiottito in un universo parallelo composto dalle parole di Genet, dalle musiche dei Pink Floyd, dal marchettaro sordomuto, dal paralitico in cerca di compagnia, dall’immigrato che si guadagna da vivere con i suoi “lavoretti” effettuati nei gabinetti della sala, dal Babbo Natale giocoliere, dall’esibizionista che mostra il suo corpo a potenziali clienti, e persino dai manichini seduti o mossi a vista su rotelle in perfetto stile Kantor. Un continuo moltiplicarsi di presenze oberate da tutti i peccati del mondo, che continuano a perseverare forse con la volontà di attirare su di essi la redenzione di un Cristo che nel finale si palesa come acrobata mentre cammina a braccia spalancate sui trampoli.
Danio Manfredini, Patrizia Aroldi, Vincenzo Del Prete e Giuseppe Semeraro sono dunque gli interpreti e performer di uno straziante e disperato grido della diversità. Una pietra miliare del nostro teatro che si (pre)occupa di scandagliare il lato oscuro, meno famigliare, sconosciuto o forse solo volutamente ignorato di quella spensierata, irresponsabile e puttana sfida eterna chiamata vita. A fine spettacolo si rimane coinvolti e impietriti, ma riprendendo Cocteau, «lui ha ragione, mentre il resto del mondo ha torto».
Ascolto consigliato
Teatro Kismet, Bari – 19 novembre 2016