Chris Cornell, un sorriso fra due immagini sfocate
Ci lascia la voce dei Soundgarden e degli Audioslave
Alla fine dicono che ci si abitua. Che è il destino dell’invecchiare quello di vedere piano piano scomparire attorno i tuoi riferimenti più cari, vicini o lontani, familiari o culturali. Eppure la accogli sempre con un certo sconforto, quella notizia. Quando arriva.
Così è stato anche per Chris Cornell, proprio l’ultimo che avresti immaginato nella lunga schiera di artisti sovrastati da un altro sé più grande e potente, tanto forte da divorarti. Perché lui – frontman dei Soundgarden, poi degli Audioslave, accanto a una ormai cospicua carriera da solista – ci era già passato attraverso un primo grande lutto, e ne era venuto fuori con quello che un musicista dovrebbe saper fare meglio, un album che è una indiscussa gemma nel panorama musicale all’alba degli anni ’90. In quel caso era stata la scomparsa di Andy Wood, amico fraterno e cantante dei Mother Love Bone, a far scoccare la scintilla per coagulare un gruppo di colleghi – il batterista dei Soundgarden Matt Cameron, insieme ai Mookie Blaylock, i futuri Pearl Jam – per dar vita all’omonimo e unico disco dei Temple of The Dog. E quella di Wood era solo una delle più precoci, in ordine cronologico, fra le perdite sanguinose di una generazione complicata, lì dalle parti di Seattle, Washington.
E allora pensi che in fondo Cornell, quella voce tanto potente, quel deus ex machina sul palco, capace com’era di catalizzare in un metro quadro le disperse energie di una performance di qualche ora, avrebbe potuto e voluto affrontarle tutte, quelle voragini che la vita nasconde sotto una sottile coltre di foglie morte.
Mentre scriviamo, si rincorrono le scarne notizie di un probabile suicidio, in quell’albergo di Detroit in cui era tornato dopo aver concluso l’ennesimo concerto sold out insieme alla band di sempre, i Soundgarden, sciolti ormai nel secolo scorso e ripresi poi in quest’epoca recente di mai troppo definitivi addii.
Se così fosse, se davvero dovesse trattarsi di suicidio anziché di un tragico malore improvviso, non ci sentiamo proprio di andare oltre. Perché i demoni ben nascosti nel profondo di noi stessi meritano più attenzione e maggior senso critico rispetto alle poche righe che rimbalzano sui social network ogni volta che una notizia del genere inizia a fermentare sugli schermi accesi di milioni di sconosciuti illustri “ben informati sui fatti”.
Molti di noi si porteranno per sempre quella voce dentro, quell’estensione immensa capace di racchiudere in sé l’espressività baritonale di atmosfere intime quanto i milioni di spilli urlati nelle melodie più taglienti.
Quelle note universali parlano già a milioni di ascoltatori nel mondo. Noi aggiungiamo due immagini sfocate: due fotografie ingenue, scattate con un misero cellulare in due concerti diversi, a Milano nel 2012 coi Soundgarden e a Roma, da solista, soltanto un anno fa. Sono brutte e sfocate, ma tremendamente preziose, oggi, per aver fermato un istante. Ci piace pensare che sotto quei lunghi ricci si celasse davvero un sorriso. Black Days, già.