Era uno degli album più attesi del 2011, il secondo lavoro di Florence and The Machine, la macchina sonora che fa da sfondo a uno dei talenti musicali britannici più limpidi, la rossa Florence Welch. La quale, più ancora che nel lavoro d’esordio, è il centro d’attenzione dell’intero disco, volutamente e scientificamente costruito attorno a lei, su misura per la sua voce, il suo personaggio e le sue visioni. Il risultato è di quelli interessanti, e per certi versi incompiuti. Spieghiamoci meglio.
Premessa doverosa: chi si aspettasse una versione più elaborata e adulta di Lungs, seminale disco d’esordio della ragazza, è necessario che riveda le sue aspettative. Le atmosfere vivaci e talvolta giocose del disco d’esordio sono quasi totalmente accantonate, per fare spazio ad un prodotto che prova a rendere Florence come una nuova Sinead O’Connor, esaltandone le qualità vocali al centro di un paesaggio sonoro che ricorda un po’ il meglio della produzione di Enya ma con un tocco più oscuro e quasi gotico, carico di suggestioni. Il titolo, Ceremonials, è in questo senso molto azzeccato.
Le influenze che si sentono in questo album spaziano lungo tutto l’arco degli anni Ottanta e da lì quasi non si esce. Come detto, il principale riferimento è il tipo di voce femminile alla Sinead O’Connor e Chrissie Hynde, come già nel singolone Shake It Out potevamo intuire, e che notiamo soprattutto in Never Let Me Go. L’atmosfera di questo brano si ritrova in quasi tutto il lavoro, dove Florence domina la scena anche liricamente, con atmosfere e testi introspettivi, ben lontani da quella Dog Days Are Over che l’ha resa celebre anche dalle nostre parti. Fuori dal canovaccio principale spiccano Breaking Down, che sembra scritta da Phil Collins, e Lover To Lover caratterizzata quest’ultima da ritornello che è ben più di un omaggio a I Heard It Through The Grapevine di Marvin Gaye. Pochi i suoni che non appartengono a quella decade; tra questi, si nota come l’influenza maggiore siano quei Glasvegas con cui Florence ha diverse volte suonato insieme. Emblema di questo è No Light No Light, con la sua batteria sincopata e il ritornello urlato, che è facile immaginare cantato da James Allan nel suo rude scozzese.
Il risultato finale è come detto apprezzabile, e però, dicevamo, per certi versi incompiuto. Il sapore di questo disco è simile a quello di un antipasto, che prepara il terreno per il prossimo disco in cui Florence sarà chiamata a rendere più grande, più maestoso e più maturo il suono e l’impatto di questo Ceremonials. Che ci lascia soddisfatti ma con l’acquolina in bocca, curiosi di vedere se e quanto potrà ancora crescere questa Florence Welch, nella quale sin da ora si intravede il potenziale di una grande artista.
Si ringrazia Francesca Avian che ha partecipato attivamente alla stesura di questa recensione.