Storie di sogni interrotti
I 'Cattivi ragazzi' di Veruska Rossi e Guido Governale
I giorni sono lunghi
rinchiusi n’ta sta cella
Gli amici sono tanti
ca piensano a cagnà
I’ ca sugnu cumm’a iss’
cerco nun li fare pensà
cantanno i canzunciell pe fall rallegra.
I versi di Dimenticare (↑ ascolto consigliato) erano il sottotesto ruvido e neomelodico in musica di Ragazzi fuori, secondo di due film di Marco Risi che, raccontando senza filtri la realtà di alcuni ragazzi di strada, inaugurarono un genere cinematografico definito neo-neorealismo.
L’aria plumbea di un carcere minorile, di un riformatorio di adolescenze subito invade l’orizzonte di attesa, entrando al Teatro della Cometa: attaccate alle pareti ci sono le foto segnaletiche di un gruppo di Cattivi Ragazzi, un insieme di esistenze interrotte simili a quelle incrociate in tanti film, spettacoli teatrali e, da qualche tempo, anche in serie televisive di successo.
Sul palcoscenico domina una simmetria mortificante. Ai lati, due celle sovrastano l’aula del riformatorio posta in avampiano, dove subito si possono cogliere altre simmetrie, quelle di sette ragazzi finiti coi sogni dietro le sbarre. Le loro storie si incrociano con quelle di un professore, un novellino armato di insano entusiasmo, che dovrà trovare il modo di interferire con un destino che sembra gìà scritto.
La simmetria della scena si interrompe, però, sull’irregolarità di queste esistenze: c’è chi ha vissuto violenze in famiglia, chi si è perso nei vicoli periferici della legalità, chi è arrivato su un gommone e chi c’è solo perché non ha avuto il tempo di trovare sé stesso. Sono come gemme di un albero che appassisce prima ancora di fiorire, ma che il concime delle possibilità restituite dall’entusiasmo del professore riuscirà a riconvertire in frutti maturi.
Veruska Rossi e Guido Governale bilanciano il racconto amaro dei Cattivi Ragazzi (produzione Formi4, in collaborazione con Omnes Artes) con un’intermittenza ben calcolata tra l’impatto violento dei contenuti e la sortita comica, favorita dalla istintiva verità di chi ancora conserva un po’ di sana innocenza infantile: i ragazzi in scena sono abili a vestire i panni dei bulli, caratterizzandoli geograficamente magari giocando sugli stereotipi in modo efficace. Francesco Montanari, o’ professore, riesce a sintetizzare nel personaggio i connotati amari di Michele Placido in Mery per sempre (Marco Risi, 1989) e quelli più romantici di Paolo Villaggio in Io, speriamo che me la cavo (Lina Wertmüller, 1992).
Il finale, un lieto fine sospeso tra le possibilità di un altrove fuori dal carcere e il rischio di non riuscire a scrollarsi di dosso l’odore della strada, riporta ancora ai versi di Dimenticare:
Dinta ‘sta cella nun ci voglio sta
pensanno a prima c’aggia a rimedià
sentanno tutt’ chist’ infamità
cerco un lavoro ca mi fa migliura
cerco a qualcuno che mi puo aiutare
a nun piensa chiù chist’ infamita
l’unica cosa so che mi puo aiutare; dimenticare.
Ascolto consigliato
Teatro della Cometa, Roma – 23 ottobre 2015