Canzoni della notte e della Controra – Umberto Palazzo
ll poliedrico Umberto Palazzo in una veste inedita: non nei panni del frontman di Il Santo Niente, lontanissimo dai suoni post-punk contenuti nella colonna sonora di Jack Frusciante è uscito dal gruppo, un’altra epoca quella dei Massimo Volume, in cui militò e a cui diede nome, un po’ più vicino alle sonorità western alla Morricone di El Santo Nada con Tuco. Sicuramente questo nuovo album solista appartiene ad una dimensione molto intima del cantautore. È come entrare nel suo salotto e sentirlo sfiorare le corde della chitarra, la voce profonda, ogni tanto increspata da un’emozione forte. Lo ritroviamo nel cuore della sua maturità. La consapevolezza di se stesso e delle proprie origini è serena, nessun turbamento appanna il lirismo dei suoi pezzi. Ognuna delle nove tracce di Canzoni della notte e della Controra ci porta in un viaggio onirico nel sud del mondo.
In Terzetto nella nebbia sembra di trovarsi ai piedi delle Ande, la foschia dei pensieri che si confonde impercettibilmente con gli spruzzi del mare lontano. Gli accordi ripetuti all’infinito ci conducono in una radura scura, i tre nella nebbia, come appartenenti alla natura stessa.
La luce cinerea dei led ci catapulta in una deserta metropoli al confine tra Stati Uniti e Messico. Dimenticata dagli uomini, ma ancor prima da Dio. Light-emitting diode a rischiarare le strade polverose. La luna si è ritirata dietro le nubi. Un’atmosfera assolutamente spettrale è quella che musica e testo cantano all’unisono. Cow-boys e drogati partecipano insieme del disagio di questa città periferica.
La Controra, protagonista indiscussa di questo album, si presenta di soppiatto nella seconda strofa di Metafisica. Il letto disfatto da un mese è l’immagine più rappresentativa di quest’usanza. I popoli mediterranei da tradizione l’hanno sempre rispettata. La famosa siesta degli spagnoli e dell’America Latina per intenderci. Non un’anima in giro dalle due alle quattro del pomeriggio: così vuole la regola. Un paio d’ore per riprendersi dalla calura, da quel tramonto sangue in pieno giorno. Qualcuno ad inizio e fine canzone fischia tra il mesto e il contento, un po’ come succede nei borghi del sud. Il sintetizzatore accompagna tutta la canzone. Il tempo viene scandito dalla chitarra classica, pronta a catturare l’orecchio.
Cafè Chantant forse tra tutte, un po’ lo fa intuire anche il titolo, la più nostalgica, un testo alla Paolo Conte di Parigi, Reveries. E’ chiaro, però, che siamo in sud Italia, i mandolini lo testimoniano. Forse bruciati dal sole della costiera Amalfitana a bere un caffè, quel caffè stretto che i napoletani rivendicano come l’unico ed inimitabile. Il violino elettrico suonato da Luca d’Alberto incanta e alleggerisce la disposizione d’animo.
La marcia dei basilischi è un sirtaki della durata di due minuti. Non stancherebbe neanche continuasse per un’altra ora. Interamente strumentale. Un ponte tra occidente e oriente, tra Grecia e Turchia, tra sentieri perduti che arrivano fino ad un monastero sul tetto del mondo. I cieli blu, le case color panna come se ne vedono soltanto nelle Cicladi. I costumi delle donne, le bellezze bruciate dal sole. Il bouzouki suonato magistralmente evoca figure d’altri tempi, radicate così fortemente nel territorio da essere tutt’ora visibili.
Un saluto hawaiiano, Aloha è il titolo della sesta traccia. Ancora una volta Napoli fa da sfondo, le spiagge vivide nella memoria del poeta Palazzo, poeta sì, è il termine giusto, perchè la ricerca semantica è curata, vocaboli alti e bassi si mescolano tra di loro con naturalezza, la lingua parlata si modifica in versi, elevandosi. In Aloha il tema della sparizione, dell’immateriale, della lontananza viene affrontato con una rabbia sottilmente celata. O forse più semplicemente con rassegnazione. Ciò che è andato è andato.
Luce del mattino è una splendida dedica d’amore il cui destinatario potrebbe essere quella terra meridionale così amata, o una donna di indole pacifica, una musa, bella da spezzare il fiato. E’ un inno alla felicità, anche se il mondo è un grande imbroglio. E’ un invito ad apprezzare le piccole cose, a lasciarsi trasportare, e a sentirsi vivi comunque anche se tutto sembra perduto. Questa canzone è inoltre contenuta nella compilation AnnoZeroLive, insieme ad altri tredici nomi di band emergenti che hanno collaborato e sostenuto il programma televisivo.
La Controra (contiene La Processione del Dio Pan) è la risoluzione dell’album. La superficie arida italo-messicana nella quale solo i più coraggiosi osano stare. Un coprifuoco. Unicamente il Dio Pan e i suoi seguaci camminano per le strade. Un flauto, dei rumori sospetti in mezzo al più grave silenzio. Il panico generato nelle case sbarrate. L’utilizzo della batteria per la prima volta percettibile all’interno dell’album – grazie a Gianluca Schiavon tratteggia perfettamente quel senso d’inquietudine dietro l’ombra dei tendaggi vetusti. Il ritmo inghiotte le paure e i misteri dell’animo umano. Non c’è scampo.
La quiete del pomeriggio, la Controra, si confonde con la notte in Acchiappasogni. E’ una storia di partite a dadi e di risse nella contrada. Terrore e sonno laggiù in città. Incubi ad occhi aperti, incubi ad occhi chiusi. Realtà e sogno fanno parte di uno stesso disegno universale. La luna spettrale accompagna tutta la sinfonia. L’ultima strofa è cantata da Tying Tiffany. Una vocina dolce, da bambina a far da contrasto con la profondità di quella di Palazzo. La sua risposta è l’epilogo di un romanzo d’amore, di una denuncia nei confronti dell’incostanza dell’uomo o di quella terra profumata di gelsomino, che così tanto dà e tanto toglie.
Questo disco è stato una vera e propria sorpresa. In positivo ovviamente. Mai nella sua carriera Palazzo si è misurato con un racconto così strettamente personale, fatto di flash, di immagini in chiaroscuro. Scritto per alleggerire la tensione da altri progetti paralleli, quest’esordio maturo è un album di cantautorato che ha veramente poco da invidiare ad altri. Personalità eclettica, una fantasia smisurata, un paroliere geniale, intuitivo. Sono pronta a scommettere che riscuoterà un successo che neanche lui stesso si immagina.