Tra dolore e misticismo
I frammenti della Cabala di Caterina Gramaglia
Una leggenda ebraica racconta che un giorno dallo studio del rabbino Jehuda Löw nel ghetto di Praga uscì un uomo gigantesco formato di argilla e fango. Era il Golem, l’essere prodigioso che Jehuda, uno dei massimi studiosi della Qabbalah, era riuscito a creare. Forte e ubbidiente il Golem rappresenta per il popolo ebraico il desiderio atavico di avere al proprio fianco un essere prodigioso capace di proteggerlo: un surrogato del Messia atteso da millenni o addirittura l’ombra terrestre di un Dio invisibile che in secoli di segregazioni e ingiustizie non è mai intervenuto per proteggere il suo popolo eletto. Anche del Golem racconta Cabala, lo spettacolo di Caterina Gramaglia.
Un monologo suggestivo, composto dal versatile talento dell’attrice e regista toscana, insieme alle musiche di Edù Nofri, che accompagna lo spettatore dentro ad alcune storie prese dai racconti degli ebrei sopravvissuti e non all’Olocausto. Il racconto si svolge su due binari paralleli: da una parte le storie, dall’altra la Qabbalah, l’essenza mistica della tradizione ebraica. Il più alto grado di sapienza e misticismo contrapposto a vite umili, chiuse in scantinati, impaurite dalla fame, dalla guerra, consapevoli di un terrore vivo e bisognose di un Dio che non si vede ma dal quale tutto dipende.
Gli ebrei condannati dallo loro stessa storia a essere senza terra, eppure figli discendenti da Sion e per questo prescelti da un Dio innominabile. Appartengono a loro i personaggi evocati da Caterina Gramaglia, tutte anime custodi della casa e della vita, dirette portatrici della stirpe eletta. Ma non c’è nulla di mistico in loro: mentre i simboli della Qabbalah vengono proiettati sulla scena, sotto scorrono gli spezzoni di vite interrotte dalla follia delle deportazioni naziste. Cabala, tuttavia, è uno spettacolo che va oltre il semplice ricordo della Shoah, che vuole portare alla luce, infatti, la vera essenza della cultura ebraica e tutta la sua potenza che si trasmette da millenni.
Un gioco di suoni, orchestrati dalla polifonia degli strumenti di Nofri e dalle parole recitate da Gramaglia, compone la scena seguendo la linea drammaturgica di un album di vecchie fotografie. Stralci di racconti che passano dai ghetti di Roma, Praga, per finire in una casa di campagna vicino Livorno. L’albero della vita della Qabbalah con le sue dieci Sephirot resta il pilastro attorno al quale ruota l’intero spettacolo, attraverso i suoi sentieri si scoprono le storie e le vie dei personaggi. Un racconto che non segue una linea logica narrativa, offrendo agli spettatori piccoli spunti per completare la storia raccontata sulla scena.
All’improvviso però tutto s’ interrompe: la fine arriva senza preavviso, dando un’impressione di incompiuto che lascia interdetti e orfani di un finale effettivo. Scelta registica audace, ma che spezza il ritmo scenico, incrinando le fondamenta stesse dello spettacolo.
Ascolto consigliato
Teatro Studio Uno, Roma – 31 gennaio 2016