Burning – L’amore brucia
Un film che immerge lo spettatore nell’ambiguità e nella fragilità delle relazioni umane.
“Per me la vita è un mistero”, si lascia andare in confidenza Jongsu (Ah-in Yoo) – giovane allevatore con l’aspirazione della scrittura – quasi nel tentativo di razionalizzare la situazione ambigua in cui si trova. Dopo aver conosciuto la bella Haemi (Jong-Seo Jun), se ne innamora, ma nel mentre lei fa un viaggio in Africa e ritorna in compagnia di Ben (Steven Yeun) – ricco rampante di professione ignota – senza esplicitare il tipo di rapporto instaurato e tuttavia coinvolgendo Jongsu nelle loro uscite. Quando improvvisamente Haemi sparisce e Jongsu non ottiene risposte da Ben, l’allevatore inizia a indagare su di lui, il che lo porterà a terribili conseguenze.
Il mistero è paradossalmente la chiave di lettura di Burning, ultimo lavoro di Lee-Chang Dong otto anni dopo Poetry e tratto da un racconto di Haruki Murakami. Il triangolo relazionale è narrato con la lucidità e la schiettezza di un autore che non pretende di sapere come si evolverà; al contrario, ci immerge nell’ambiguità, nella fragilità e nella plasmabilità dei rapporti fra i giovani attraverso lo sguardo ingenuo di Jongsu il quale, grazie all’hobby della scrittura, ha l’arduo compito di tradurre in parole ciò che lo circonda (e non a caso il suo romanzo d’esordio è un perenne work in progress). A lui tocca vincere la rivalità nei confronti di Ben (agiato, residente in città e sicuro di sé – sorta di “nemesi”), che la rivalità proprio non sente e ciononostante diviene capro espiatorio di un amore probabilmente non ricambiato. Nel titolo si trova la bussola per orientarsi tra tutto il non detto o il non compreso: il fuoco è simbolo di una forte volontà umana che ne contraddice lo spaesamento sociale. Per il protagonista è l’amore che lo consuma e che lo porta all’inaspettato epilogo, in cui l’incendio diventa distruttivo e catartico. Un processo messo in scena da Lee-Chang Dong con un crescendo di tensione sottile e controllatissimo, lontano dal pathos che ci si potrebbe aspettare, nell’ottica dell’imprevedibilità del temperamento umano.
Da un lato, lo sguardo del regista coreano è orientato a ricercare il senso della vita nelle piccole cose: Haemi balla in estasi davanti al tramonto, dopo esserne rimasta estasiata in Africa. La magnifica ripresa della sua silhouette in controluce è la prova visuale di quella volontà di ricerca. Dall’altro lato, getta luce sull’inquietudine che pervade la vita dei giovani, nascosta e incurata. Una commistione di linguaggi e messaggi a cui il cinema mainstream non ci ha ancora abituato, ma di sicuro valore cinematografico.