Bon Iver, è un orso con le ali di una farfalla.
Io l’ho percepito in queste sembianze già da quel difficile, intimo, For Emma, forever ago dove solo chi desiderava un “buon inverno”, mai così solitario e oltremodo appagante, ci poteva infilare le orecchie.
Seduto davanti ad una minuscola finestra di un nido di legno, sbirciava l’inverno del Wisconsin che avanzava a grigio e bianco neve sfuggendo ad una malattia e ricordando un amore finito.
Fu un album bellissimo.
Le stagioni cambiano anche per Justin Vernon che torna dopo quattro anni fatti di esperienze, mondi e classifiche inaspettate.
Scioglie la neve e cerca di dimenticare per quanto possibile Emma camminando in una stagione che si tinge di primavera e dove la malinconia sfocia in una gioia quasi infinita.
Lo fa inzuppandosi di strumenti, trattando la voce, stravolgendo, complicando.
Bon si scrolla forzatamente l’etichetta di songwriter e realizza un album dove la semplicità è solo apparenza, dove i giochi vengono fatti dalle orchestrazioni e non dal singolo, elaborate e originali stratificazioni sonore, dalle spontanee strutture corali e dall’inconfondibile falsetto di stoffa, preciso, potente.
La musica è tumefatta di colori, a volte troppi, che spesso non delineano chiaramente i luoghi da lui attraversati. Si percepisce la voglia di staccarsi dall’esordio con taglio netto circondandosi di svariati musicisti tra cui Rob Moose o il sax anima di Colin Stetson.
Il paesaggio attorno si fa interessante quando tra le orecchie esplode Perth, post rock dei primi ’90 rivisitato in chiave folk “trattata” nel migliore dei modi, una delle vette del disco.
Il sentiero si fa mistico con i ritmi arpeggio e le danze di Minnesota, dove ci si trova spiazzati dagli intervalli di fiati di sapore etnico e da un basso saturo, strapazzato in un secondo tempo. Bon Iver a volte folk, a volte elettrico quasi slow core e a volte tutto.
Holecene riporta alla capanna del Winsconsin intrappolando l’ascolto in una passeggiata sospesa a mezz’aria senza far cader e senza far volare.
Si torna a terra sino all’arrivo di Calgary dove i fantasmi di neve tornano a spaventare, dove l’ascolto fugge in terre lontane spesso fredde, dolci , fino all’ottimo intermezzo “sfonda petto” breve e intenso.
Bon Iver ci lascia in uno stato d’animo vario e confuso, ma sicuramente di bell’aspetto.
Il limite lo si può cercare nella non continuità dei pezzi non certo nel gorgoglio emozionale che non abbandona il disco nemmeno nelle pause e fa arrivare alla coda con gli occhi ben spalancati ed un abbozzo di sorriso fatto di ottimismo, una linea di sole e tante, tantissime vocine in testa. Il sussurro dell’ Orso.