Blade Runner 2049
Denis Villeneuve torna, trenta anni dopo, nella metropoli di Ridley Scott
La storia del cinema ci insegna che ciclicamente un nuovo modello s’impone su quello precedente scardinando le regole del gioco e impostando nuovi canoni per i film che verranno. Ad esempio, procedendo a grandissime linee, con Nascita di una nazione (Birth of a Nation, 1915) e Intolerance (Id., 1916) David W. Griffith insegnò che attraverso il montaggio si poteva ottenere la spazializzazione del tempo e la temporalizzazione dello spazio; Quarto potere (Citizen Kane, 1941) di Orson Welles, con l’uso consapevole dell’inquadratura in relazione al montaggio e la costruzione del racconto all’epoca poco convenzionale, fece da spartiacque tra cinema classico e moderno; mentre con Blade Runner (Id., 1982) Ridley Scott riuscì a rimodellare il genere fantascientifico grazie a una commistione di generi e a un’umanizzazione dell’inumano di cui, ancora oggi, si sente un’eco profonda.
Eppure, al pari di quanto avvenne con il capolavoro di Welles, quello con Blade Runner non fu amore a prima vista. Dopo un’accoglienza piuttosto fredda nell’anno della sua uscita, la pellicola sembrava infatti destinata a finire presto nel dimenticatoio, nonostante qualche autoritario attestato di stima. Ma, stimolato anche da un mercato europeo parecchio attratto dalla demolizione del cliché e dal clima plumbeo del film, Blade Runner diventò nel corso degli anni un vero e proprio cult. Parimenti, anche la sua genesi fu tutt’altro che semplice. Già nel 1970, un certo Martin Scorsese tentò di ottenere un’opzione sul libro di Philip K. Dick (Il cacciatore di androidi, 1968) con scarsi risultati. Solo sul finire degli anni Settanta il progetto iniziò a concretizzarsi grazie a Hampton Fancher, sceneggiatore che poté confrontarsi più volte con Dick in persona. A quest’ultimo presto si aggiunse il produttore Michael Deeley e, dopo svariate ipotesi (Robert Mulligan, Adrian Lyne e Michael Apted), in cabina di regia si optò per Ridley Scott, regista proveniente dal mondo degli spot pubblicitari che aveva però già mostrato il suo talento sul grande schermo con I duellanti (The Duellists, 1977) e Alien (Id., 1979). Con Harrison Ford nel ruolo di protagonista e Rutger Hauer in quello di antagonista avvenne poi il miracolo che tutti – anche indirettamente – conosciamo. Sfidiamo chiunque a negare di aver pronunciato o semplicemente udito il celebre monologo «Ho visto cose che voi umani…».
Una bella sfida, dunque, per Denis Villeneuve, chiamato a dare un seguito a quella Los Angeles distopica e postmodernista che ha guadagnato un posto d’onore nella storia del cinema. Ma il regista canadese non si è mai dimostrato uno sprovveduto, riuscendo a entrare in punta di piedi in un mondo – quello hollywoodiano – senza mai perdere totalmente di vista la propria poetica e il contatto con i tempi correnti. Risale infatti al 1998 il suo primo lungometraggio – Un 32 août sur terre – primo tassello di un percorso che lo porterà alla notorietà solo dodici anni dopo con La donna che canta (Incendies, 2010), grazie a cui ottenne una candidatura all’Oscar per il Miglior Film Straniero. Di lì arriveranno le produzioni hollywoodiane che spaziano dal thriller Prisoners (2013) all’acclamato film di frontiera Sicario (2015), dal visionario Enemy (2013) al fantascientifico Arrival (2016), film che riceve ben otto nomination all’Oscar. Un ruolino di marcia niente male, dunque, per uno dei registi più talentuosi degli ultimi anni.
Terminate le dovute presentazioni, passiamo a questo Blade Runner 2049. Siamo dunque a 30 anni di distanza dalle vicende narrate dal film di Scott, in una Los Angeles dove un altro blade runner – l’agente K (Ryan Gosling) – è incaricato di cacciare i replicanti delle generazioni precedenti, quelli che non accettano più gli incarichi per cui erano stati costruiti e sognano, invece, una vita più simile a quella degli umani. Ma la missione si rivela più complicata del previsto, specie quando viene a galla un segreto che rischia di mettere in discussione il sempre precario equilibrio che regola i rapporti tra uomo e macchina e l’identità dello stesso poliziotto.
A ben vedere il plot principale è quasi identico a quello del film di trentacinque anni fa. D’altronde, la sceneggiatura porta la firma dello stesso Hampton Fancher, questa volta in collaborazione con Michael Green. Ma Villeneuve è scaltro, e non cade nella trappola dell’imitazione o dell’emulazione, imprese quasi impossibili visto il valore del primo capitolo. Né tantomeno si presta a un’operazione nostalgia di cui, come testimonia il recente Trainspotting 2 (Danny Boyle, 2017), proprio non se ne avvertiva la necessità. Dunque nessun guanto di sfida lanciato dal regista canadese, che richiama sì il film di Scott – come era inevitabile –, ma ne prende anche le distanze adattandolo alle nuove esigenze filosofiche, estetiche e formali. Le immagini della cupa metropoli dalle luminose pubblicità vengono quindi alternate ad altre più algide o addirittura ocra di una Las Vegas versione post-apocalittica (fotografia Roger Deakins); la colonna sonora che fu di Vangelis è richiamata ma altresì inasprita da quella di Benjamin Wallfisch e Hans Zimmer; i tempi e gli spazi vengono dilatati per mostrare il nuovo mondo iper-tecnologico e la sua l’umanità – sia essa naturale o artificiale –, affine a quella precedente ma completamente sopraffatta dal progresso.
Tempi e umanità si diceva. La macchina da presa si muove tra primi piani e ipnotici campi lunghissimi per mostrare una realtà in cui la tecnologia ha preso il sopravvento. E in questa nuova metropoli pare che i suoi abitanti abbiano (quasi totalmente) smesso di porre e soprattutto di porsi domande. Agiscono anche, è innegabile, ma nella maggior parte dei casi attendono freddamente risposte dal progresso tecnologico teso a inaridire un’anima ormai completamente allo sbando e “drogata” da ologrammi attraverso cui viene filtrata l’esistenza. E in tal senso è indicativo l’abbandono del celebre test Voight-Kampff, sostituito da chip e marchingegni che permettono di rilevare la natura del replicante in pochi secondi. Un processo di addomesticamento intellettuale che fa emergere le differenze dei due “padri” di questi due mondi così vicini e così lontani.
Se nella pellicola di Scott la creazione era affidata al mix di cinismo e filantropia di Eldon Tyrell (Joe Turkel), in questo nuovo capitolo siamo alle prese con i deliri di onnipotenza di Neander Wallace (Jared Leto). Il primo creava automi, ossia essere dotati di equivalenza umana in cui venivano proiettate paure e dilemmi che appartenevano al presente; il secondo, invece, produce replicanti ultra-ubbidienti che alleviano o eliminano definitivamente le antinomie alla base dei modelli più vecchi. Ne nasce dunque una civiltà glaciale in cui gli impulsi sono sotto il (quasi) totale controllo del proprio creatore mentre le emozioni si rifugiano sottopelle in inerte attesa di un evento, un miracolo che riesca a scuotere e a svegliare nuovamente una psiche assopita.
In conclusione, Denis Villeneuve firma la regia dallo sbalorditivo impatto visivo di un film capace di presentarsi a tutti gli effetti come figlio legittimo del capolavoro di Scott, portando quest’ultimo al suo naturale livello successivo. Il regista canadese chiude il cerchio e lascia aperte nuove porte, piccole ambiguità – se messe in relazione a quelle del primo capitolo – che (forse) torneranno utili in futuro. Ma proprio questo spiraglio verso un ipotetico nuovo franchise unito alla spettacolarizzazione talvolta eccessiva di alcune sequenze rappresentano gli anelli deboli di una pellicola comunque dall’indubbio valore.
Come già anticipato, occorre però adattarsi alle correnti esigenze estetiche e formali; e in questa Hollywood, specie in produzioni così mastodontiche, donare un taglio più autoriale a un film che fondamentalmente è tornato a essere considerato un “prodotto” appare un vero e proprio miraggio. E Blade Runner 2049, in fondo, si mostra così, come un prodotto – straordinario, sia chiaro – ma pur sempre tale.