BlacKkKlansman
Storia vera e ironicamente mostrata dal regista che ci mette in guardia una seconda volta sull’odio e l’ignoranza che esiste e persiste a tutti i livelli sociali
Iniziare a parlare del film è semplice per quanto complesso e pieno di rilanci extracinematografici e non solo. Dove questo arriverà, e quanto farà parlare di sé, solo il futuro sarà in grado di mostrarcelo e onestamente spero che faccia molto rumore. Spike Lee con BlacKkKlansman (2018) ha detonato una bomba, con umorismo dal risvolto amaro, che rimette in luce una triste pagina della storia americana passata e recente: l’integrazione delle minoranze razziali, in particolare quella afroamericana. Tema molto caro al regista, che per tutta la sua carriera ha cercato di porre l’accento sulla questione di disuguaglianza sociale tra bianchi e neri ma anche e soprattutto, come i capponi manzoniani, tra la sua stessa gente. Spike Lee, seppur abbia sempre cercato di portare sul grande schermo questi temi a lui molto cari, ha anche però ricevuto molte critiche, anche dalla comunità afroamericana stessa. Questi brutti momenti sembrerebbero essere terminati e quello che vedrete in sala è probabilmente uno dei migliori film della carriera del regista.
La soluzione deriva dal sapiente uso dell’ironia, rubato in parte dai film della blaxploitation anni Settanta, tra i primi ad usare come colonna sonora musica soul e il funk, dando al film un andamento black groove tanto caro al regista. In questo caso, l’universalità della musica, lo rende più accessibile anche a chi non è direttamente coinvolto nella cultura afroamericana. Il pubblico d’indirizzamento, a differenza di Do the right thing (1989), è quindi meno mirato e più ampio. Per tutto il film l’ironia si basa, non più solo su “inside jokes” o sfottò tra etnie, ma raggiunge una miscellanea comica contro un solo e unico nemico: l’odio e il razzismo. Il nemico è giustamente visto nei panni del KKK (KuKluxKlan) o meglio come si fa chiamare “The Organisation”, un nome più ammiccante alle masse e che incute meno timore storico nella ricerca di un consenso di pubblico più ampio. Vorrei brevemente mettere in risalto la sequenza dove il nostro protagonista di colore (John David Washington), figlio di Denzel, ride dando del pazzo al suo sergente bianco, che lo mette in guardia sull’odio che muta faccia per insidiarsi nella politica delle alte sfere. Una conferma a queste congetture dalle toccanti sequenze finali (con brano inedito di Prince) che riportano alla luce i fatti di Charlottesville nel 2017, dove un suprematista bianco, investì un corteo antirazzista uccidendone una manifestante e ferendone gravemente altrettanti. Neppure Trump e la sua mancanza di sensibilità, mascherata in sbadataggine oratoria, viene risparmiata e più di una volta il suo “Make America Great Again” viene associato al motto “Americans First” del KKK.
Insomma, si parla di storie vere e difficili a credersi. Proprio come la storia del film che vede come protagonista, l’agente Ron Stallworth, primo agente di colore, arruolato nella polizia di Colorado Springs. Dapprima messo in archivio e poi messo azione in qualità di infiltrato ai comizi dei BlackPanthers e conseguentemente promosso sul campo a detective. Da qui, riuscirà nella roccambolesca quanto assurda, iniziativa di infiltrarsi nella ristretta cerchia del KKK. Per questo avrà però bisogno dell’aiuto del suo compagno e controfigura bianca, Flip Zimmerman (Adam Driver), i quali insieme riusciranno a scalare i gradi gerarchici della “Organisation” e a sventarne i piani per un attentato. Unica vera ancora di salvezza contro questa ondata di odio razziale risulta essere la ricerca del compimento della giustizia delle pari opportunità, del rispetto e dell’educazione civica, combattuta da esponenti che non vedono più il colore della pelle, ma il senso di appartenenza a un’unica comunità. Su questo, mi soffermerei sul parallelo dove il regista ci mostra e racconta in contemporanea la tragica testimonianza del linciaggio di Jesse Washington, da parte di un amico, che assistette a quell’orrore, avvenuto in Texas nel 1916, da una finestrella di casa. Lo stesso lo fa Ron Stallworth, che assiste da una finestrella di una cucina, alla cerimonia di investitura degli iniziati al KKK con il suo compagno infiltrato presente. Accettare e professare la fede dell’odio razzista, anche se non violento, non è tanto differente dal lasciare che una folla linci, mutili, bruci e impicchi un essere umano. Il regista non punta quindi il dito ma chiede cooperazione e un no unito al razzismo e all’odio e alla pericolosità che la storia si ripeta.
Spike Lee non risparmia nessuno e attacca con decisione, come ha fatto in passato il cinema stesso, dapprima usando una regia che ammicca ai polizieschi blaxploitation e infine in maniera molto diretta a The Birth of a Nation (1915) di David Griffith, un caposaldo della storia del cinema ma di fatto un manifesto nudo e crudo degli ideali del KKK. L’odio è molto difficile da estirpare alla radice, e anche quando si pensa di essere riusciti nel nobile intento di abbatterlo, non bisogna mai abbassare la guardia, purtroppo ci saranno sempre degli invasati ignoranti pronti a dar fuoco a delle croci.