Se si dovesse racchiudere in una sola immagine il cinema di Michael Mann si dovrebbe scegliere un notturno illuminato da luci riflesse, un momento di distensione, una dipartita spesso ma non sempre una morte una quiete raggelata nel bel mezzo di una tempesta, un piccolo momento di ordine nel caos. Basta pensare a James Caan che attraversa il suo parco macchine nel finale di Strade Violente o alla metropolitana che porta via nella notte il corpo morente di Tom Cruise in Collateral. Questo gusto per il partire, il distacco, la ferita ormai non più rimarginabile è dominante anche in Blackhat, l’ultimo film di Mann, uno dei grandi maestri dell’action movie, che ritorna a sei anni dall’irrisolto, per quanto fascinoso, Nemico pubblico.
Chris Hemsworth è un hacker che viene tolto dalla prigione per aiutare una task force formata da FBI e governo cinese nel dare la caccia a un cyberterrorista, capace con dei sofisticati virus di far esplodere i reattori di centrali nucleari sia americane che cinesi. La caccia lo porta in Estremo Oriente, da Hong Kong a Jakarta. Un viaggio pericoloso dentro le connessioni di una rete che man mano che viene decifrata miete vittime, strappa legami, si configura come sfida campale, rendendo remota e irrilevante, superflua, ogni ipotesi di ritorno.
La struttura del thriller d’azione persiste nell’intreccio ricco di colpi di scena, nelle esplosioni di violenza, nell’ottima scrittura che rende accessibile, scottante, pericolosa una materia a prima vista fredda come la pirateria informatica. Avrebbe forse giovato al film un protagonista di maggiore carisma, essendo Hemsworth monolitico, poco abile nel variare di toni richiesto da una vicenda che va via via semplificandosi, astraendosi, rarefacendosi. Qui vediamo il thriller come scheletro, come ipotesi, come abito di una narrazione che stuzzica le paranoie di un mondo ormai compiutamente iperconnesso, ma a esso non ci si riduce. La messa in scena raffinatissima finisce con l’abbassare l’importanza dell’intreccio, per da un lato imporsi come esperienza estetica autosufficiente, da un altro potare i rami e le biforcazioni per lasciare i protagonisti soli con i loro dolori, alieni ai mondi da cui provengono.
C’è tutto il meglio di Michael Mann in Blackhat, tutta la sua sublime arte registica, quella capacità di dare sostanza plastica alle sequenze, esibendo un controllo assoluto pur nella frenesia delle più concitate scene d’azione, come se il caos fosse stato ingabbiato, inscatolato, messo in forma, preparato per quel momento di cui dicevamo, in cui ci si ferma, si guarda scorrere la vita, l’ordine appare, forse, ristabilito e si è pronti ad accettare il proprio destino.