Non chiamatelo sesso debole. Non fatelo, la reazione potrebbe essere molto, molto violenta. Soprattutto se a sentirvi è una giovane boxeur che vi guarda dall’alto in basso, strafottente e coatta, rabbiosa e sull’orlo della crisi di nervi perché è rimasta chiusa fuori casa – in un quartiere londinese poco raccomandabile -, in mutande.
Compare così, Chloe Jackson (una Lucrezia Guidone che è euforico concentrato di tensione, impeto e tormento), come un’ombra che, in attesa di acquistare forma e colore, scivola nel nero della scena sgombra solo un grosso pannello quadrato sullo sfondo e, più tardi, qualche sedia di Bitch boxer, drammaturgia di Charlotte Josephine e regia di Ivan Alovisio (al Teatro Belli per la rassegna Trend nuove frontiere della scena britannica).
È una dura, Chloe. Una Rocky Balboa con la treccia, i fianchi arrotondati, guantoni e borsone in spalla, che non ha paura di niente, che si tira i pugni sul petto e mostra i denti a chiunque incroci il suo sguardo. Una principessa guerriera i cui sogni vincere la medaglia d’oro alle Olimpiadi -, ambizioni e sacrifici, condivisi con il padre (Paolo Perinelli), allenatore, sostenitore e destinatario dell’unico (edipico) affetto, si fratturano all’improvvisa morte del genitore, abbandonando quel corpo lucido di sudore sotto il peso della solitudine, dell’impotenza e del rancore. E lei, reagisce sfogando i colpi nell’aria, scaricando le parole – che non rinunciano mai a una certa dose di scurrilità – a distanza ravvicinata, soffocando tenerezza e femminilità nell’odore rugginoso del sangue, trasformando lo spazio in un vuoto mentale nel quale ri-cercare i pezzi della propria anima.
Un luogo sconosciuto e indecifrabile, fatto d’immagini e ricordi, di suoni e volti, di presenti e passati: l’incontro nel club con il pacato Jamie (Gabriele Falsetta) il cui aspetto è vago richiamo al Jack Torrance kubrickiano , i severi allenamenti autoimposti, nonostante le raccomandazioni del coach Len (lo stesso Alovisio) prestanza fisica e accento slavo, uno che di cazzotti se ne intende , l’odio represso verso una madre (Silvia Pietta) che ha preferito accorciare le gonne, alzare il gomito e abbandonare la famiglia per il primo uomo disponibile.
Sono i tasselli di un cuore lacerato dalle ipocrisie e dalle ingiustizie esistenziali, dal corrosivo, intimo silenzio della morte, dalla placida rassegnazione di non poter riempire di orgoglio gli occhi di chi si ama, e dalla martoriante consapevolezza che per quanto si tenga stretta una mano, non si può impedire alla vita di strapparla via. E allora si vince solo abbassando la guardia, incassando il colpo, accettando la perdita, e tenendo forte le dita premute su un’invisibile cicatrice di sangue e lacrime.
Teatro Belli, Roma – 10 novembre 2014