Quando dei giovani artisti, siano musicisti o registi, drammaturghi o scrittori, si trovano a decidere di raccontare la propria generazione, la quotidianità che li circonda, il vivere nel proprio tempo, di fronte a loro hanno infinite strade, canali, modi di espressione, contesti a cui fare riferimento. Una delle vie meno battute, delle più impervie e insieme più potenzialmente ricche di soddisfazioni è quella dei simboli, delle favole, delle distorsioni surreali e creative. Ecco già dal titolo la Biografia della peste di Maniaci d’Amore mette la pulce nell’orecchio, evoca medievali flagelli con intenti lirici, personali, contemporanei. Così quando il giovane Cris – ragazzo riflessivo, «cretino» direbbero le malelingue – viene investito da una macchina solo per ritrovarsi poco dopo nella cucina di mamma abbiamo la certezza che la referenzialità facile sarà tenuta fuori dal romano, e splendidamente periferico, Teatro Biblioteca Quarticciolo.
Al paese di Cris non sta bene morire. Mamma lo redarguisce decisa, «a casa nostra, morti non ne abbiamo avuti mai», a parte lo zio col cancro, ma si sa quello «è sempre stato una testa calda». Si ride della stridente surrealtà che vediamo costituirsi sul palco. Non parlano di draghi e fate, i Maniaci d’Amore, parlano del qui e ora, ma riescono con pochi gesti, un pugno di capriole linguistiche, un paio di trovate scenografiche – il frigorifero che è insieme varco per l’aldilà e centro morale dell’«aldiquà», sarcofago, talamo – a costruire un altrove perfettamente riconoscibile, un’Italia di provincia trasversale ai dialetti – l’inflessione siciliana tradisce ma non circoscrive – una famiglia (e un paese), infelice a modo suo, come diceva Tolstoj.
Il bello dei simboli, è che non finiscono, non si esauriscono. Nel solco della loro riunificazione che porta il segno della differenza scorre una tensione costante, per dirla con Warburg, sono una riserva inesauribile, un porto dall’approdo difficile e dall’alveo accogliente. Il simbolismo dei Maniaci d’amore è felice perché mostra quel di più di senso, quella ricchezza produttiva e arricchente. C’è la morte e la famiglia, l’amore e la nevrosi, la provincia e le sue chiacchiere, il limbo in cui la nostra generazione vive alla disperata ricerca di un varco per crescere, costruire, programmare, diventare a propria volta famiglia, non per forza perfetta né felice, ma propria, nuova, personale. La morale, il lieto fine è tutto qui: diventare anche noi, finalmente, infelici a modo nostro.
Teatro Biblioteca Quarticciolo, Roma – 7 febbraio 2015
In apertura: Foto di scena ©Andrea Macchia