Dopo essere stato in concorso a Bari, nell’ItaliaFilmFest/Opere prime e seconde del Bif&st, e con alle spalle l’esperienza dell’anno scorso alla Settimana della critica di Venezia, è in questi giorni in sala Banat Il viaggio, il primo lungometraggio del regista Adriano Valerio.
Il lavoro incrocia le storie dei due giovani protagonisti e fornisce un punto di vista su quella che viene denominata migrazione a rovescio. Ivo (Edoardo Gabriellini) è un agronomo che arriva a Bari con tanta fiducia e voglia di realizzarsi ma è costretto a lasciare la città e l’Italia per recarsi in Romania, nella regione di Banat, e accettare un lavoro finalmente adatto alle sue competenze. Dopo poco è raggiunto da Claudia (Elena Radonicich), l’affittuaria che ha preso il suo posto e con la quale dal nulla si è creata una grande intesa. Anche lei è in crisi e dopo aver lasciato il marito ha perso la sua occupazione in un piccolo cantiere navale.
Una coppia precaria che si forma in una situazione lavorativa precaria in un tempo indefinito e in uno spazio la cui vastità e durezza sembra precludere, paradossalmente, ogni possibilità di fuga. L’indeterminatezza è uno dei dogmi ai quali si affida Valerio, sottolineandola di continuo con i movimenti della macchina da presa che non generano mai sussulti e si arrendono senza condizioni a campi lunghi, inquadrature fisse e totali.
Un cinema, quello di Valerio, che prova a essere esistenzialista – minimalista e che, pur lontano dall’eleganza di un Philippe Garrel, appare come il frutto di una ricerca costante della semplicità delle emozioni, quasi a volerle sradicare dalla forma che nel quotidiano le imprigiona e le modella. In tal senso opera la fotografia di Jonathan Riquebourg che sembra indugiare nel tratteggiare al meglio l’humus dei luoghi abitati dai protagonisti, alternando luci calde, nella prima parte e nelle scene di sesso, a cromaticità più fredde e inespressive.
Con Valerio si punta a rincorrere costantemente, attraverso le riflessioni di Ivo e Claudia, il senso vero e più profondo del divenire rovistando nell’intima semplicità dei comportamenti delle piccole cose del quotidiano. Un contesto nel quale appaiono incomprensibili le forzature messe in atto per virare verso colpi di mano narrativi poco plausibili e controproducenti.
Dopo aver fatto coincidere l’arrivo a Bari di Ivo con la sera di dicembre del 1999 in cui Antonio Cassano diventa Antonio Cassano, la voce off del protagonista ci ricorda che quell’anno tutta la città trepida per una nevicata, che poi non arrivò, attesa dal 1963. A parte il falso storico, con la nevicata che in realtà c’era già stata nel 1993, appena 6 anni prima, un inizio siffatto è molto più vicino a un mockumentary che a un dramma esistenziale. L’uso ossessivo del fuori fuoco nei primi dialoghi dei due protagonisti, per sottolineare distanze/vicinanze, non rimedia e quando la pellicola volge verso la fine l’espediente del falso si materializza nuovamente. Stavolta è il datore di lavoro di Ivo, Ion, a confessare di essere l’ex portiere della Steaua di Bucarest che, nel 1986, parando ben quattro rigori al Barcellona fece vincere la Coppa dei Campioni alla compagine romena. Ovviamente nulla coincide del racconto di Ion, a parte la nazionalità, e mai e poi mai potrebbe essere Helmuth Duckadam che, tra l’altro, gli stivali di gomma da contadino non se li è mai infilati.
Tuttavia la parte con maggiori asperità resta quella barese a cominciare dai dialoghi che a tratti pescano nel banale per finire al licenziamento di Claudia recitato frettolosamente e con un paio di frasi in dialetto troppo stereotipate. Da elogiare invece la prova dei due interpreti principali, Edoardo Gabriellini ed Elena Radonicich sembrati a loro agio, in sintonia con i loro personaggi e capaci di essere la vera spina dorsale del film.