Baby doe, o il corpo che si fa memoria – Gruppo Nanou
Quanti modi esistono di vivere uno spazio? Da piccoli non ce lo chiediamo, lo viviamo e basta: gli spazi sembrano più grandi di quello che sono, eppure con quanta libertà esploriamo, corriamo, poi con goffaggine cadiamo e ricominciamo daccapo. Ma come cambia la percezione dello spazio man mano che sembra diventare più piccolo quando in realtà siamo noi a crescere? Baby doe, nuova creazione di Gruppo Nanou, è un percorso che attraverso il corpo scava nella memoria di un gesto infantile e lo riporta alla luce in contrapposizione a uno spazio geometrico dai contorni immutabili.
Fondazione VOLUME! da galleria d’arte si trasforma in una stanza onirica, pervasa da un rombo incessante (suono Roberto Rettura) e spezzata dal bianco e nero (scene e disegno luci Giovanni Marocco) di una scenografia sospesa disseminata lungo tutto il percorso: televisori, un tavolo sovrastato da elementi geometrici scomponibili dall’aspetto di grandi giocattoli come se l’infanzia fosse lì, sopra le nostre teste. Cinque figure abitano indisturbate questi spazi: quattro donne, un’unica anima, scissa in Sissj Bassani, Anna Basti, Alessia Berardi, Anna Marocco e Marco Maretti, supervisore dal passo circospetto.
Come quando il pensiero infantile, ancora inconsapevole di sé, è libero di vagare in modo arbitrario, così il pubblico si muove qua e là come uno sciame trasportato da ciò che continuamente accade intorno a sé senza un apparente filo logico. Inizia così una danza che si dispiega tra il desiderio di nascondersi e la volontà di rivelarsi, tra l’immobilismo e il movimento improvviso, tra l’interazione e la solitudine.
C’è nel corpo la riattivazione di un movimento allo stato embrionale; un corpo che deve ancora conoscersi e si smarrisce in una partitura che si spezza e non evolve. Tutte le possibilità sono aperte: i performer si muovono a piccoli passi per terra, poi in piedi , cercano nello spazio nuove possibilità di incastro, riprendono i giocattoli da sopra al tavolo e li rimettono a terra; e ancora, corpi ombrati danzano sullo sfondo di un cerchio bianco accecante, come una nuova origine del mondo da cui prendono linfa vitale queste creature che non sembrano né umane né animali ma piuttosto presenze aliene e alienate, appena atterrate in un mondo ancora da scoprire.
Intanto, dalle televisioni scorrono le immagini di un bambino intento a giocare negli stessi spazi in cui siamo, vestito alla stessa maniera dei danzatori, come se questi ultimi fossero un suo prolungamento ideale. Ecco che la danza si fa gioco di compresenza fra un tempo irrimediabilmente perso e un tempo presente; fra lo spazio visto con occhi infantili e quello stesso così diverso percepito dai performer adulti; fra un movimento vivo e pulsante destinato a morire e le immagini astratte che potrebbero ripetersi all’infinito.
Baby doe non ha una fine, come non può avere fine ciò che succede nell’anticamera del pensiero; usciamo nello stesso modo in cui siamo entrati, come se i performer fossero sempre stati lì, a conservare per noi uno spazio-tempo perduto.
Muovendosi fra performance e arte visiva, Baby doe è uno studio rarefatto sulle possibilità di un corpo in divenire gettato all’interno di uno spazio immobile. Eppure, quello spazio cambia, se a guardarlo non siamo più noi ma occhi più piccoli e spensierati.