Mostri senza prodigio
L'umanità in scena a B.Motion Teatro 2016. Sguardi dal festival
Le recenti polemiche su Charlie Hebdo hanno ribadito un’importante lezione: la società odierna tende a essere volubile e assolutista. E c’è molto, moltissimo da sospettare di queste improvvise ondate di emotività che si gonfiano e si sgonfiano con tanta fatua irruenza per poi depositare ogni volta solo un pensiero schiumoso, flaccidino, inconsistente, irrisolvibilmente preda delle correnti del momento. Insomma, manca una coscienza critica matura; come ha ricordato a Volterra Massimiliano Civica con i suoi Concittadini ideali, il mercato sta livellando la società in un’eterna adolescenza che asseconda i fenomeni senza riuscire a stabilizzare una propria capacità di sguardo. L‘uomo contemporaneo oscilla. In continuazione. E la prima inevitabile conseguenza è che non avendo una base sufficientemente solida si dimostra incapace a costruire.
“Monsters and Co.”, vengono sarcasticamente ribattezzati questi uomini a B.Motion – la sezione del festival OperaEstate di Bassano del Grappa che propone e indaga i nuovi linguaggi del teatro e della danza –, non tanto nell’accezione latina di monstrum-“prodigio” ma più strettamente quale «quel lato oscuro che volenti e nolenti alberga dentro di noi». Il demonietto della perversità, per dirla à la Poe, quella voce interiore che ci spinge a fare ciò che non dovremmo fare. E difatti la maggior parte degli spettacoli della sezione Teatro di B.Motion condivide una comune ricerca sui punti ciechi dell‘uomo, tanto privati quanto pubblici.
La violenza psicologica in La Ruina, la rabbia repressa in Sinisi, la trappola famigliare ne Gli Omini, la noia molesta in Amor Vacui, l’impasse comunicativa nei Fratelli Dalla Via e quella teatrale in Latini, per non dire del grottesco esibizionismo in Babilonia o del congelamento intellettuale in Anagoor. Al di là dei risultati artistici, effettivamente quello selezionato da Rosa Scapin e Carlo Mangolini (direzione artistica) è un campione artistico-antropologico estremamente rappresentativo, sintomatico, tanto da esserlo perfino suo malgrado, cioè mostrando anche nelle sue falle creative la vivida espressione di questa precarietà tutta contemporanea.
Si prenda ad esempio piscina (niente acqua), lo spettacolo coprodotto dal festival e diretto da Lorenzo Maragoni su testo (2006) del britannico Mark Ravenhill. Troviamo qui quattro giovani artisti tanto annoiati quanto agiati, che come avvoltoi ipocriti aleggiano sulla quinta amica del gruppo (presenza assente) costretta in un letto d’ospedale dopo essersi tuffata in una piscina, per l’appunto vuota. E sarà proprio il vuoto a dominare, metafora di una vena creativa completamente prosciugata che – contestualmente alle tipiche tendenze tossiche del cliché “artista” – comporta solo azioni sterili e rovinose. Questo cinismo sprezzante, tuttavia (complice una recitazione affettata simil-accademica che castra “filodrammaticamente” tutto il possibile nero del testo), risulta alquanto di maniera: lo spirito è tipicamente anni ’80 con una nota nostalgica ’50-’60 ricalcando così tutti i comportamenti stereotipici dell’artista fatuo figlio del mercato; una sorta di Danny Boyle prima maniera (Piccoli omicidi tra amici, Trainspotting) trapiantato nella factory delle vanità wahroliane con tinte vintage à la Colazione da Tiffany. Per quanto apprezzabile all’interno della “convenzione teatro”, viene pur tuttavia da chiedersi cos’abbia da dire nel – al – 2016 questo spettacolo se non replicare una narrazione ormai ben nota: quale sguardo sensibile ci offre? Non che si debba cedere alla trappola del nuovo a tutti costi, però ci sembra una creatività decadentista e nostalgica che si autocompiace, autocondanna, autoassolve (quella di Ravenhilbb3