La realtà del corpo ci salverà dalle parole
A proposito dell'Autunno Danza di Cagliari
Se il teatro non gode di grande popolarità, la danza sicuramente non naviga in acque migliori. Eppure, curiosamente, fra i due è quella che spesso finisce per convincere di più. Come mai? Forse perché non parla, o per meglio dire, non usa parole, cioè non delega l’espressione di sé a qualcos’altro. Si affida all’immediatezza del corpo. E così facendo dice, dice molto, forse anche di più.
Ed è proprio questo elemento a fare la differenza. È questa immediatezza a fare breccia. Le parole sono fraintendibili, manipolabili, dicono sempre qualcos’altro ma mai sé stesse; un mucchio di lettere non ha alcun significato proprio: come dire, “d+a+n+z+a” fa danza, ma è “la danza”? e che peso ha una “d” o una “z”? e cosa vuol dire poi danza? e…
Il corpo invece no: il corpo può farsi segno, certo, può piegarsi e lanciarsi, può nascondersi, può camuffarsi, ma non potrà mai negare il suo dato reale non-simbolico. Con il corpo, la sensazione – a pelle – è che non ci sia bisogno di capire, basta semplicemente osservare e in qualche modo i neuroni a specchio scateneranno l’empatia (se non interviene, ovviamente, una gabbia intellettuale a contrarre il movimento della coreografia). Ciò che accade lì, in scena, si fa riflesso di ciò che accade qui, nella vita di tutti i giorni. Non bisogna pensare, bisogna esserci.
È esattamente ciò che accade in Good Lack di Francesca Foscarini. La coreografa veneta appare davanti a un muro di scatole, leggera, leggerissima, muove i passi con estrema aderenza, come una moonwalk al ralenti, le piante sono liquide sul pavimento, ma il viso rimane inespressivo, come se quell’onda non potesse propagarsi oltre la vita, perché c’è qualcosa che pesa, un fardello sulle spalle – i traumi del passato? il dolore? la sconfitta? – che stronca ogni anelito di slancio.
Ecco che di lì a poco il contenuto dello zaino sarà svuotato a terra: una pila di vestiti senza particolare fascino o importanza, che evoca alla lontana, forse, il celebre mucchio di stracci della Venere di Pistoletto. Foscarini li indosserà, uno dopo l’altro, uno sull’altro. Potrebbe sembrare un gioco buffonesco, tanto più che la danzatrice continua a tenere su una faccia à la Buster Keaton. Ma ecco che dopo l’ennesima giacca, impermeabile, sciarpa, gilet, coronerà il tutto con un giubbotto di salvataggio. Il quadro d’insieme all’improvviso cambia radicalmente. Quel povero diavolo così conciato non ci fa più ridacchiare tanto. La sua è un’altra storia. Quei vestiti non sono più semplici costumi. Ora quel macigno stratificatosi capo per capo, gelo per gelo, notte per notte, è passato sulle nostre di spalle.
Foscarini parrebbe porci tacitamente una domanda fondamentale e attualissima: quanto ha bisogno di diventare esplicita una tragedia perché ce ne cominciamo a interessare?
Al di là di qualunque tradizione e scuola, la danza infatti è innanzitutto l’espressione e la manifestazione di un corpo consapevole di sé stesso. Senza alcun fine pratico o agonistico. E quello della consapevolezza è un dato che spesso finiamo per trascurare, abituati come siamo ormai a storicizzare, a etichettare, a formalizzare culturalmente tutto ciò che accade sulla scena anziché osservarlo da un punto di vista più concreto, reale, ontologico. Insomma, a guardarlo per quel che è.
Proprio per questo, ci sembra particolarmente felice la lunga rassegna cagliaritana Autunno Danza, ideata e diretta da oltre vent’anni da Momi Falchi e Tore Muroni, che dal primo di ottobre al 21 di novembre per sette finesettimana ha raccolto coreografi del calibro di Roberto Castello, Abbondanza Bertoni, Enzo Cosimi, Simona Bertozzi, i quali oltre a essere tra i migliori artisti della danza italiana condividono per l’appunto – come abbiamo spesso raccontato su queste pagine – un legame con il Reale molto forte. Nessuno di questi artisti infatti cade nella trappola di una danza iperestetica o iperintellettualizzata, ciascuno a suo modo conserva una matrice terrigna forte (si pensi anche al suggestivo (zero) di Cuenca/Lauro, sempre presente in rassegna), non fa appello, non in prima istanza almeno, alla mente ma recupera un’umanità comune e subito evidente a chiunque.
Insomma, quello organizzata da Spaziodanza è ben più che un festival di danza contemporanea in una città insulare, non si tratta del solito cartellone più o meno valido di artisti “ammucchiati” e distribuiti uno dopo l’altro senza particolari crismi, no, qui in filigrana si scorge una visione molto precisa, articolata, coerente, armonizzata altresì all’interno della programmazione generale del capoluogo sardo in virtù della rete locale 10 Nodi che punta in direzione di una coordinazione tra le diverse realtà teatrali cagliaritane senza pestarsi i piedi in una competizione dissennata. Autunno Danza è infine arricchito da azioni contestuali come incontri, proiezioni, concerti, esposizioni, esperimenti performativi trasversali, che offrono a loro volta utili strumenti per avvicinarsi collateralmente al mondo della danza.
Una pratica che certo andrebbe replicata in continente, dove la danza raramente trova tale e tanto respiro (si faccia il confronto con l’imbarazzante situazione romana in cui, Romaeuropa escluso, viene relegata ai margini, fra rassegne messe su alla male e peggio, repliche in seconda o terza serata, exploit istituzionali solo a fine dicembre o giugno in sale semivuote, per non parlare del decaduto festival Equilibrio: quasi che la danza fosse l’immigrato portatore di diversità di cui tutti si fanno belli – a parlare – ma che nessuno si sognerebbe mai di ospitare a casa).
La danza in fondo mostra molta più vitalità del teatro, al momento, molta più qualità e ispirazione; e la formula di distribuire un festival su due mesi sembra un’ottima strategia di sollecitazioni. Insomma, al di là della riuscita del singolo spettacolo (che nell’economia generale di un festival è sempre un fatto decisamente secondario) Autunno Danza presenta una proposta particolarmente pregiata. Forse a mancare, almeno per quel che abbiamo potuto notare in due giorni, è una narrazione più decisa di tale proposta e del suo peso specifico rispetto al panorama nazionale. Non lo fa quasi nessuno, intendiamoci. Non è certo una mancanza da criticare. Ma data la forza complessiva del festival sarebbe interessante offrire agli spettatori una cornice più esplicita di ciò che effettivamente si sta agendo.
Perché anche il guardare – parafrasando Castellucci – diventi un atto responsabile.
Ascolto consigliato
La Vetreria, Cagliari – 18 e 19 novembre 2016
Crediti ufficiali:
GOOD LACK
Progetto di e con: Francesca Foscarini
Videoinstallazione: Fiorenzo Zancan
Cura della tecnica: Luca Serafini
Accompagnamento alla ricerca: Ginelle Chagnon e Cosimo Lopalco
Produzione: VAN
Con il sostegno di: Centro per la Scena Contemporanea di Bassano del Grappa (I), Centro Jobel Residenza Teatrale (I), MiBACT
Alcuni materiali per questo lavoro sono stati sviluppati all’interno del progetto Dyptique promosso da: Circuit-Est Centre Chorègraphique di Montreal (QC) e Centro per la Scena Contemporanea di Bassano del Grappa (I)
Foto:
Ticonzero El mandala del conejo, ©Alessandro Olla
Francesca Foscarini Good Lack, ©Chiara Meneghini
Abbondanza Bertoni Romanzo d’infanzia, ©Dario Bonazza
Auguste Rodin Iris, Messenger of the Gods (1890)
MET, New York ©Gift of Iris and B. Gerald Cantor Foundation, 1984
Spaziodanza Nella pancia di Tera, ©Ilaria Demurtas
Stefano GalantiSmarra: Palinopsia