ll teatro come inquisizione
Fare 'Autodafé' con Lenz nel peccato innocente di Verdi
Come scoprire se una donna pratica la stregoneria? Semplice, gettatela in un fiume legata: se galleggia vuol dire che è agente del demonio, se invece affonda allora è effettivamente innocente. Già, sembra un'assurdità, eppure in periodo di Controriforma l'ordalia dell'acqua era una pratica diffusa.
Dopo l’avvento del Protestantesimo, infatti, messa in discussione la propria egemonia, la Chiesa Romana si radicalizzò a tal punto da compiere vere e proprie epurazioni che si propagavano come una peste di villaggio in villaggio: salvarsi era quasi impossibile, e sotto tortura si finiva non solo per confessare la magia nera ma per accusare addirittura qualcun altro, creando così un effetto domino senza fine. Ne abbiamo la testimonianza in Cautio Criminalis.Processi contro le streghe (1631) del gesuita renano Friedrich von Spee, che nella Germania cattolica assistette come padre confessore molte delle streghe torturate.
In quegli anni si perse ogni decenza cristiana, il cattolicesimo papalino si era ormai ridotto a una questione di dominio. Per cogliere a pieno la nuova creazione di Lenz Fondazione è molto importante comprendere questo aspetto.
Commissionato dal Festival Verdi di Parma, nelle mani di Francesco Pititto il Don Carlos verdiano (ispirato all’omonima tragedia storica di Schiller) si trasforma infatti in Autodafé: espressione portoghese che stava a significare – citiamo dalla Treccani – «Proclamazione solenne della sentenza dell’inquisitore spagnolo, cui seguiva la cerimonia pubblica dell’abiura o della condanna al rogo dell’eretico.» E va notato che in Spagna, dove è ambientato appuntato il Don Carlos, un secolo prima degli eventi in questione Ferdinando II di Aragona istituì l’inquisizione spagnola non tanto per fervore cattolico ma perché intuì che la religione era una delle armi più forti di controllo di massa (facendo piazza pulita di musulmani e ebrei).
Ecco allora che con Autodafé Lenz compie un doppio salto: se in Schiller il conflitto padre-figlio tra Filippo e Carlos diventava teatro di ardori romantici e ideali libertari, con Verdi invece lo scontro etico si impregna di inquietudini più profondamente psicologiche e all’interno di questo scenario la presenza ingombrante dell'Inquisizione diventa sguardo ominoso e opprimente sul privato e sul pubblico. Ebbene, a partire dalla rielaborazione drammaturgica di Pititto, Maria Federica Maestri ricomincia proprio da qui: dall'ambiente, dall'atmosfera, dall'ombra che domina sulle vite degli uomini oltre le loro singole questioni.
Da qui il primo apparente paradosso. Autodafé ha una libera fruizione: nulla deve essere seguito pedissequamente; come si trovasse in un’enorme installazione il pubblico può spostarsi da una parte all'altra a proprio piacimento; tuttavia, il luogo in questione altro non è che un vecchio carcere abbandonato. Perciò ecco che la libertà si rifà immediatamente trappola.
A regnare dunque non sarà tanto la vicenda dell'erede al trono, dei soprusi del padre, dell’amore frustrato, né propriamente l’opera verdiana in sé, ma l'attraversamento claustrofobico di una condizione irrimediabile: se l'Inquisizione è un occhio che penetra ogni vita decidendone la sorte, lo spettatore col suo sguardo in movimento compirà il medesimo percorso ma in direzione opposta – in ricerca, in ricomposizione di un’identità smembrata.
Perciò, da un lato si decompone sparpagliando lo spettacolo tra le celle e i corridoi, tra la recitazione e il canto, tra attori professionisti, attori disabili, cantanti e allievi del conservatorio, tra gorgere che perforano le voci come cilici e vesti da crisalide che rima
ndano a un’esistenza universale di castrazione; decomposizione da un lato, dunque, e dall'altro ricomposizione, nel percorso di scoperta dello spettatore.
Protagonisti assoluti: lo spazio violato e il silenzio soffocato, che il disegno sonoro di Andrea Azzali scalfisce e scarnifica in echi psicotiche (da Verdi) di speranze perdute.
Insomma, non si assiste ad Autodafé, si è in Autodafé: più lo si perde, più lo si soffre e quindi più che mai esso agisce – mentre il carcere (spazio psicologico-esistenziale: leggi “la vita”) risuona del suo tempo perduto con Verdi.
Con Autodafé Lenz non solo supera, sublimandola, la complessa questione degli attori sensibili (tutto si fonde e compenetra senza distinguo di sorta), ma porta la sua ricerca estetico-drammaturgico-scenica a un livello altissimo realizzando un’opera assoluta che, a nostro avviso, rappresenta una delle azioni teatrali italiane più profonde dell'anno.
L’incanto sotto la maschera: il rovescio del fantastico nel ‘Furioso’ di Lenz, di Giulio Sonno
Essere e pur divenire: il dramma dell’esitazione in ‘Hamlet Solo’ di Lenz, di Giulio Sonno
Il peso della consapevolezza: a Natura Dèi Teatri debutta il MacBeth di Lenz, di Giulio Sonno
Crediti ufficiali:
AUTODAFÉ
Rielaborazioni musicali, visuali e performative dal III atto del Don Carlo di G. Verdi
Installazione e regia | Maria Federica Maestri
Imagoturgia | Francesco Pititto
Disegno sonoro | Andrea Azzali
Produzione | Lenz Fondazione
In collaborazione con
Teatro Regio, Festival Verdi, Conservatorio A. Boito, Ars Canto
Commissione del Festival Verdi in prima assoluta
Con | Domenico Mento basso;
Eugenio Maria Degiacomi basso allievo del Conservatorio A. Boito;
selezione del Coro Voci Giovanili Ars Canto diretto da Gabriella Corsaro:
Elena Alfieri soprano, Jacopo Jorge Antonaci, Guido Larghi, Gioele Malvica baritoni,
Giovanni Pelosi, Giacomo Rastelli bassi, Michelangelo Turchi Sassi tenore;
performer: Valentina Barbarini, Walter Bastiani, Paolo Maccini, Delfina Rivieri,
Sandra Soncini, Carlotta Spaggiari, Barbara Voghera, Lara Bonvini, Marco Cavellini,
Chiara Garzo, Federica Goni, Silvia Settimj
Cura | Elena Sorbi
Organizzazione | Ilaria Stocchi
Ufficio stampa | Michele Pascarella
Direzione Tecnica | Alice Scartapacchio Assistenza | Sara Bernini
Équipe tecnica | Stefano Glielmi, Gianluca Bergamini