A volte capita che, per inversione, ancor prima di accomodarsi, uno spettacolo attenda lo spettatore già nel foyer, in quella terra di mezzo dove le aspettative sono in fermentazione. Come accadrebbe in una casa i cui inquilini possono assomigliare alla sempre pettinata famiglia del mulino bianco, attaccate alle pareti, alcune fotografie d’infanzia di due bimbette e due lettere – una A e una B- costringono le idee verso una direzione rassicurante.
Mentre si prende posto in sala, una scenografia vanitosa si svela: ancora una A e una B, enormi, si spartiscono la scena con due sgabelli, disegnando una simmetria degli opposti, interrotta solo da un microfono al centro della scena; lo spazio si prefigura già come una sorta di ring per bambine, piccola grande arena dove giocare a fare la guerra.
Entrano due donne, prendendo posizione dietro le due letterone e le trasformano in due bocche di vulcano da cui sgorgano rancore e sorpresa, sentimenti malcelati e ferite mai rimarginate: chi sono? Perché si investono con una raffica di fendenti, il cui ritmo è segnato da una campanella da pugilato?
Quando finalmente le due scendono dai rispettivi pulpiti e depongono lo scudo delle definizioni giudicanti ha inzio una sorta di viaggio nel tempo emotivo: si spogliano, tornano bambine, cuginette di indole opposta e contraria, che condividono casa e famiglia e che crescendo insieme divideranno invidie e debolezze, passioni e tormenti.
La Storia fa capolino dietro i ricordi intimi inaciditi dal tempo: gli idealismi anni ’60 si trasformano in illusioni a zampa d’elefante e poi spalline e paiettes; le cugine diventano nemiche divise e indivisibili, amanti passionali l’una dei tormenti dell’altra e seppure provino a nascondersi rispettivamente dietro intenzioni anarchiche e smanie d’arrivismo femminista, non riescono a fuggire dal senso di colpa che è di una generazione intera: la generazione che si è tradita, che si è sbagliata, ma che ancora stenta ad ammetterlo.
La scrittura aspra e provocatoria di Claire Dowie, autrice e regista inglese di Stand-up Theatre, è brillantemente restituita dalla traduzione di Emiliano Russo (anche regista) e Ottavia Orticello, i quali insieme a Flaminia Cuzzoli creano uno spettacolo accattivante nella forma e nella sostanza, nonostante l’intensità del testo e lo stand-up ridotto a una sola scena, declinata in chiave contemporanea dall’ormai immancabile selfie con il pubblico.
È una storia di due destini che s’incrociano, che s’invidiano e si fottono fino a un inevitabile annullamento: quasi come una frazione matematica, le due esistenze finiranno per semplificarsi, assorbirsi.
In questa black comedy generazionale lo humor britannico si trasforma in sarcasmo all’italiana e la risata è garantita anche se, quasi in modo impercettibile, la morte invade il racconto: non siate curiosi di sapere altro… “la curiosità ha ucciso il gatto”!
Ascolto consigliato
Teatro Due, Roma – 15 gennaio 2015