As the Gods Will
Gli Hunger Games secondo Takashi Miike
Takashi Miike è a Roma per ritirare il Maverick Director Award. Un bel nome per un premio: maverick è il cavallo selvaggio, il mustang delle praterie del west americano, icona di libertà e indipendenza. Una bella scelta, Takashi Miike: una filmografia che in poco più di vent’anni veleggia verso la tripla cifra, una bulimia produttiva sbocciata negli anni Novanta del V-Cinema (cioè quello distribuito direttamente in home video) e che non è stata rallentata dal successo, dagli endorsement occidentali (Quentin Tarantino), dalle selezioni ai più importanti Festival del mondo, dai budget sempre più ricchi. Takashi Miike è davvero un maverick: non è circoscrivibile in definizioni, non è riducibile alle buone maniere estetiche e produttive.
E appunto As the Gods Will, tratto da un manga di Kaneshiro Moneyuki, presentato qui a Roma in anteprima mondiale, non lascia il tempo di ambientarsi. Apre ex abrupto, in un’aula di liceo, dove si gioca a 1-2-3-Stella e chi perde, perde la testa. Gli spettatori e i protagonisti condividono la stessa scomoda posizione. Sono gettati loro malgrado in un gioco le cui regole sono ignote. Dovranno scoprirle via via da soli per accedere al successivo livello di conoscenza, e di pericolo. Superato lo shock, o meglio abituatisi all’ambiente folle e al bombardamento di stimoli cui si è sottoposti, si riconosce uno schema a dir poco conosciuto: un gruppo di adolescenti in strenua lotta per la sopravvivenza in un sistema che li vuole morti, ma che è disposto a premiare i più abili e forti. I presupposti di Hunger Games e dei suoi più o meno riusciti epigoni, stravolti, risignificati, frullati nella follia rappresentativa i giochi di bambini trasformati in efferate torture psicologiche e bassa macelleria splatter di un autore che è seriamente incapace di darsi un qualsivoglia limite.
È cinema ed è videogame As the Gods Will. Ma il videogioco non è solo, come per tanto cinema di consumo contemporaneo, riferimento estetico – dalle soggettive all’azione esasperata ma soprattutto modello drammaturgico: come sistema dalle regole rigide ma non stabilite a priori, continuamente da indagare e scoprire. Pubblico e personaggi sono quindi presi da questo esercizio di continua decifrazione di codici mutanti, prigionieri di una teoria dei giochi senza equilibri. Ma la felicità e il gusto per lo spettacolo, per l’eccesso, per la pirotecnica dell’effetto non sono l’unico orizzonte cui ridurre questo film. Dalla capacità reale di utilizzare in maniera produttiva il videogame, alla rappresentazione di un’adolescenza sempre più cristallizzata all’inazione, fino addirittura a derive mistiche, e altrettanto mistici rifiuti.
Takashi Miike ancora una volta dimostra di essere autore complesso e stratificato, da non ridurre alla sola sfrenata immaginazione, all’elenco dei suoi eccessi splatter. Un autore da vedere, da godere a tutti i livelli possibili di lettura, da apprezzare nella sua enorme fascinazione per il cinema come macchina spettacolare, nella grandissima inclusività delle sue inquadrature.