Immaginate di prendere posto a teatro e di trovarvi a un palmo dal naso una colonna larga quaranta centimetri che vi occlude la vista. Potete certo tentare di spiare ai lati, ma per quanto vi sforzerete di guardare a destra, inevitabilmente vi perderete ciò che accade a sinistra, e viceversa. Questa è la condizione in cui ci immerge il Teatr ZAR di Jarosław Fret: ma cosa si nasconde in questa visione negata?
Armine, Sister spinge a fare i conti con un evento clamoroso eppure sbrigativamente insabbiato: il genocidio armeno. Era il 1915, le potenze occidentali giocavano a scacchi con le vite degli Europei, e la Turchia, temendo la rivolta interna degli Armeni e il loro passaggio alle fila russe, rastrellò un milione e mezzo di uomini, donne e bambini e li sterminò. Una strage che non rimarrà isolata nel Novecento, ma che al contrario dei lager nazisti viene tuttora minimizzata se non addirittura negata dalle autorità turche (basti pensare ai recenti anatemi scagliati dal dispotico Erdogan alla Santa Sede). A oggi, parlare di “genocidio” in Turchia è reato.
Ci ritroviamo trasportati, così, tra le rovine di un tempio dell’Anatolia; al Teatro India, infatti, la scena è completamente inglobata dall’installazione: gli spazi si fondono, spettatori e artisti sono ai lati. Il pubblico tenta di penetrare con la vista, i performer con il corpo, ma quel dedalo di colonne costringe a disperdere l’osservazione, a ripartire dalla colpevole cecità di noi eredi mancati della Storia.
Alle parole di una narrazione si sostituirà, allora, il canto monodico armeno: dietro quelle stesse colonne da cui ci arriva il tonfo dei corpi che cadono e il clangore di catene e ganci che violentano la dignità umana, la voce dei morti dimenticati giunge a noi come un fantasma senza pace, condannato a rivivere la propria tragedia nell’oscurità.
La storia è lì, davanti ai nostri occhi, ma arriviamo troppo tardi per sostenerne lo sguardo. Ci riscopriamo, dunque, colpevoli turisti della memoria, indenni dietro la prosperosa colonna europea mentre il mondo viene scosso da violenze che è proprio la nostra stessa oziosa indifferenza ad alimentare.
Peccato però – per fortuna – che in Armine, Sister quella colonna rimarrà davanti a noi giusto il tempo di crederci al sicuro, poi tutto si smonta, i pilastri abbandonati implodono, dal loro interno sgorga una cascata di sabbia che è cenere di morti e finalmente guardiamo, senza più alcuna scusa.
Ma oramai non ci sarà più nulla da vedere la clessidra del tempo ha finito la sua corsa, non si può tornare indietro: tutto è già rovina. Ciò cui si assiste all’India, insomma, non è tanto una performance, quanto, piuttosto, l’induzione di una testimonianza: induzione libera certamente , spontanea, ma urgente. Nonostante alcuni ridondanze stilistiche che forse ne fiaccano l’efficacia (allo spettacolo manca la compattezza e l’immediatezza del precedente Taglio Cesareo), in Armine, Sister si avverte proprio la sensazione di una rivelazione, di un testimone storico e umano che deve essere scambiato.
Di fronte a questa desolante aridità, tornano allora la mente le parole con cui Tacito commentava la folle potentiae cupido (brama di potere) degli antichi Romani: “Là dove fanno il deserto, lo chiamano pace”.
Arriviamo tardi, arriviamo miopi, arriviamo colpevoli, ma infine arriviamo. Non possiamo rimediare, ma possiamo imparare. Ed è questa la grande lezione culturale di Teatr ZAR.
(Foto © Magdalena Mądra | Karol Jarek)