Arancia Meccanica, un ingranaggio che non (si) muove
La trasposizione di Gabriele Russo
«E d’un tratto capii che il pensare è per gli stupidi, mentre i cervelluti si affidano all’ispirazione»
Anthony Burgess Arancia Meccanica
Meglio bestie incapaci di trattenere gli istinti o placidi animali in cattività?
Riducendo all’osso il paradigma filosofico-concettuale del testo di Anthony Burgess (1962) che Kubrick rese una pietra miliare della storia del cinema (1971), ci si potrebbe già interrogare sull’intenzione dell’adattamento firmato nel 2014 da Gabriele Russo e riportato in scena al Teatro Eliseo: il condizionamento della mente umana e la liberazione della violenza sono temi senza tempo, stimoli di riflessione per ogni contesto storico-sociale, a maggior ragione per un’epoca come quella contemporanea in cui bullismo e knock-out game rappresentano forse il campanello d’allarme più direttamente assimilabile alla vicenda dei drughi e del protagonista Alex.
Il rischio, altissimo, è però quello di cavalcare l’onda lunghissima e pop di Arancia Meccanica, senza effettivamente perseguire un preciso obiettivo drammaturgico che aggiunga qualcosa o stimoli nuove riflessioni.
A livello estetico tutto sembra funzionare. Le scene di Roberto Crea riescono a restituire un immaginario che appartiene tanto al testo di Burgess, quanto alla visione di Kubrick, bilanciando essenzialità e trovata d’effetto: si passa dal vuoto iniziale, con i Drughi che da soli bastano a restituire le coordinate spaziali distopiche del racconto, fino alla scatola capovolta della casa dello scrittore in cui i tre bulli fanno irruzione, portando i loro istinti bestiali a infrangersi a rallentatore sui malcapitati coniugi.
Ancora sul piano estetico, giocano un ruolo fondamentale le luci di Salvatore Palladino e le musiche di Morgan che, mescolando la potenza lisergica del tema elettronico Che succederà (che include e riassume tutto il glossario del Nasdat lo slang inventato da Burgess mutuato da Kubrick e ripreso dal regista) alla cattiveria classica di Ludovico Van, esprimono attraverso il suono quell’equilibrio precario tra rumore e silenzio, tra esplosione e quiete che è proprio del testo rappresentato.
Ancora il giallo dominante dei costumi di Chiara Aversano e la recitazione che si appoggia a smorfie e modulazioni vocali contribuiscono alla riuscita della scatola nera messa in scena da Russo (prod. Fondazione Teatro di Napoli).
Eppure, alla fine, resta poco: che farne di un’altra Arancia Meccanica? Ci si può accontentare di una mera replica che, al netto dell’esercizio di stile, nulla aggiunge?
Forse; ma se è vero che se accettassimo in toto questa operazione di marketing teatrale saremmo probabilmente noi i ri-condizionati è altrettanto vero che proprio Beethoven affermava «Non v’è regola che non si possa infrangere in favore dello Schöner (bello)».
Letture consigliate:
Il Don Giovanni Filippo Timi, di Giacomo Lamborizio
Ascolto consigliato
Teatro Eliseo, Roma – 29 aprile 2016