Un perimetro di sale grosso delimita al teatro Argot il ring di una lotta senza tempo: quella fra la legge scritta e la pietas, la saggezza del vecchio e l’idealismo del giovane, la legalità e la giustizia. È la storia di Antigone, l’eroina figlia di Edipo che contro il volere dello zio/re di Tebe Creonte decide di seppellire suo fratello Polinice, traditore della patria. La paladina per eccellenza degli oppressi torna ora in un primo studio scritto, ideato e interpretato da Julia Ferretti e Titta Ceccano, in arte Matutateatro.
Non appena si entra in sala sembra di essere finiti in un quadro di De Chirico: in una scenografia buia e imprecisata, l’elemento antico convive in modo arbitrario con il moderno; così, accanto a due grandi sassi che ricordano l’acropoli greca, si trovano due fantocci di ceramica (Laura Giusti_Laghirà): Ismene e Emone, pallidi riflessi dei protagonisti che assistono imperscrutabili al fulcro principale dell’azione. D’altronde, è una società «in vetrina», come recita una scritta al lato del palco, un buffo cortocircuito tra il sale presente in scena e la parola inglese per «vendita», che contrasta con un’altra scritta misteriosa in greco antico: παιδοκτόνοι, «infanticidio».
Mentre la sagoma di Creonte è immobile di fronte a una televisione vuota, Antigone – vestita di un bianco candido e microfono alla mano, al contempo coreuta antica e corista moderna – si muove con passo calibrato in questo luogo dai tratti surreali e vagamente erotici, come sembra evocare l’abbigliamento languido dei manichini e le luci al neon ora blu ora rosse. L’attrice pronuncia come una litania ipnotica parole che mescolano frammenti di Sofocle e Anouilh, una drammaturgia che è arricchita dalle incursioni cinematografiche tratte da I cannibali di Calvani e da una ricerca musicale pensata ad hoc.
Cos’è peggio: infrangere la legge o la pietà? La soluzione non c’è, è il conflitto stesso: ecco che Creonte irrompe in scena per dar vita a quello scontro titanico tra il «sì» del tiranno e il «no» del ribelle, frutto della penna di Anouilh. Gli attori si rincorrono, si stringono in modo violento e si guardano negli occhi con l’ostinazione di chi vuole far prevalere le proprie ragioni; affrontano con trasporto queste parole carnali e affilate, capolavoro di pathos e introspezione, che scavano nella fragilità di Creonte come nella forza sconsiderata di Antigone. Una lotta fra dicotomie insanabili destinate entrambe alla distruzione.
Bisogna comunque che ci sia chi guida la barca. Fa acqua da tutte le parti, è piena di crimini, di stupidità, di miseria.
Sono parole di Creonte, ma nelle nostre orecchie rimbombano più minacciose che mai per la situazione di forte precarietà che stiamo vivendo. La figura di Antigone si dimostra quindi ancora una volta fucina in grado di scatenare riflessioni su un eterno presente, per il significato universale di cui si caricano i suoi nodi eternamente irrisolti.
Matutateatro ne fa infatti una metafora del nostro tempo, portando avanti un primo studio ragionato che ha tutti i presupposti per indagare ulteriormente quella scritta, «sale»: chi è in vendita? Soprattutto: chi ci sta comprando?
Teatro Argot Studio, Roma 28 aprile 2015