Jean-Louis Trintignant ed Emmanuelle Riva, intensissimi nel definire il loro amore al cospetto della malattia. Michael Haneke in concorso, con Amour disegna due figure dalla dignità estrema e segnate da questo sentimento immenso. E anche quando l’esistenza prova a portarselo via questo amore, non sarà il destino a deciderlo ma uno di loro.
La macchina da presa è spesso fissa, tranne quando si libera per seguire gli anziani nei corridoi di quell’enorme casa. I dialoghi prima imperanti e spesso alti si disperdono con l’avanzare della malattia di lei. Sarebbe una coppia perfetta nei loro ritmi e nelle loro abitudine, dolci e personali, sei il destino non ha voluto il crollo della stessa memoria di uno dei protagonisti, la smaterializzazione dei ricordi a cui lo stesso Haneke assiste senza il bisogno di calcare la mano. Gli over ottantenni Trintignant e Riva sorprendono e commuovono nel loro gioco da teneri amanti che portano al limite estremo dei giorni. Ci coinvolgono straordinariamente e ci fanno partecipi continuamente del loro quotidiano. Da quando abbracciati entravano a teatro fino agli ultimi deliri di lei a cui lui cerca rimedio con filastrocche infantili perché non precipiti nel silenzio.
Georges però a un certo punto soffoca la moglie con un cuscino, ed è proprio la parte che meno convince. Questa scelta appare forzata, come la trasmissione del suo messaggio. Così tutta la parte finale, diventa volutamente ambigua. Ma anche questa cautela, questa circospezione, questa non chiarezza nel dirci le cose, è un segno di debolezza e un altro limite, il più grande, del film. Non per essere contrari all’eutanasia (anzi, almeno da parte mia), ma è proprio una lacuna di scrittura e di atmosfera questa morte indotta perché leva al film quell’atmosfera di sospensione che, forse, era il suo carattere principale. Detto ciò Haneke si conferma un grande cineasta.