Alle radici della condizione umana
A Lecce il festival itinerante Alle radici dei gesti
La natura umana è un terreno rude, complesso ed estremamente faticoso da comprendere. Se poi ci si ferma al primo sguardo, alla superficie, il gioco diventa inevitabilmente più complicato. Nella confusione delle nostre città, nelle pagine dei giornali o nelle immagini televisive riusciamo a scorgere un’umanità variegata in cui vecchio e nuovo convivono, si completano e confondono l’uno nell’altro. Ma (troppo) spesso ci accostiamo a essa con valutazioni affrettate, tentando di decifrare ciò che appare indecifrabile con faciloneria, talvolta ignorando o compatendo le azioni e i gesti che non riusciamo a giustificare anziché analizzare le cause che li hanno fatti scaturire.
Scava in profondità invece Alle radici dei gesti, festival itinerante organizzato dallo storico e fertile centro salentino Koreja Teatro, che quest’anno ha inglobato in un unico atto due tra le più significative esperienze culturali del Salento – Teatro dei Luoghi e Fineterra – rassegne che da sempre si sono proposte di allargare i confini culturali nazionali mediante il teatro, la musica, la danza e la pittura. Si parte dalla piccola Aradeo per arrivare a Lecce, attraversata dalla periferia al centro storico in un susseguirsi continuo di evocazioni e suggestioni sempre differenti. Ci siamo concessi, dunque, una breve ma preziosa incursione assistendo a due spettacoli agli antipodi tra loro. Vediamoli nel dettaglio.
Partiamo dal rigore fisico e formale di Verso la Specie di Claudia Castellucci (Societas). Nel cortile dell’Ex Convitto Palmieri, sotto una tenue pioggia che esaspera il clima austero dettato da una danza magnetica e allo stesso tempo raggelante, dei corpi vestiti di nero con il capo chino oscurato da un cappuccio che ricorda fogge di tempi ormai andati, avanzano verso il centro della scena prima di essere bombardati da musica elettronica in cui assordanti vortici synth si alternano ad atmosfere più miti ma parimenti algide (composizioni di Stefano Bartolini). Piccoli gesti e movimenti arcaici si incrociano quindi a suoni contemporanei, si rincorrono fino a fondersi in un’unica soluzione che ne accentua la difformità ma altresì l’insospettabile affinità.
Il contrasto diventa sempre tratto di unione ma anche ostacolo, in un gioco perennemente contraddittorio. Lo testimoniano le movenze “primitive” dei danzatori, il loro avanzare lento, gli impulsi primordiali che li portano a congiungersi l’uno con l’altro senza tuttavia perdere la propria unicità espressiva. Uno spettacolo che porta il pensiero alla sua radice, mentre il suo massimo interprete – l’uomo – è posto al centro di un processo di crescita costante attuato attraverso la ricerca del proprio spazio in relazione a quello altrui, del contatto necessario a comprendere e comprendersi fino in fondo, del sentirsi parte di un insieme pur rimanendo, in fin dei conti, essere unico e irripetibile.
Comprendere per comprendersi, il messaggio arriva forte e chiaro in Medea per strada, spettacolo a bordo di un furgoncino per sette spettatori prodotto da Teatro dei Borgia. Il piccolo viaggio inizia e termina al Teatro Koreja, con un giro tra alcune vie buie e altre trafficate di Lecce – quelle della prostituzione – che altera nettamente lo stato d’animo iniziale dello spettatore da quello finale. Se all’inizio del percorso, infatti, è la curiosità ad aleggiare nell’aria, a fine spettacolo si rimane impietriti, spiazzati, letteralmente senza parole.
L’inversione di tendenza è provocata dall’ottava passeggera – Elena Cotugno –, “raccattata” dopo qualche centinaio di metri dall’autista che come ringraziamento si prenderà qualche bell’insulto dall’attraente donna dal marcato accento dell’Est. Parrucca di lunghi capelli neri, rossetto rosso, calze a rete e lungo stivale; la ragazza sorride tanto, cerca di attaccare bottone e ben presto trova terreno fertile in due arzille signore che assecondano la sua sempre più crescente logorrea ben calibrata e mai troppo invadente.
Tra imprecazioni e risate racconta la sua storia, il suo passato che sfocia nel presente. Dall’infanzia al viaggio che l’ha portata in Italia, la ricerca del riscatto sociale e la delusione, fino all’incontro amoroso che cambia definitivamente la sua esistenza. Il suo uomo diventa infatti il suo protettore e il suo coinvolgente racconto diventa repentinamente agghiacciante, con dei risvolti che le consentono di entrare lentamente e disperatamente nel mito di Medea.
Elena Cotugno, dunque, trasporta lo spettatore in un mondo di sconforto e afflizione, senza caricare di eccessiva drammaticità o retorica il suo personaggio, come troppo spesso avviene quando si trattano questioni così delicate. Alla fine si lascia “scaricare” dal furgoncino in un angolo qualsiasi di una qualsiasi città, mostrandoci il suo vero volto – senza trucco e parrucca – e indossando una semplice tuta. Il veicolo riprende la sua marcia e noi, con lo sguardo indirizzato verso il nulla, in silenzio tombale, ci lasciamo alle spalle – questa volta solo fisicamente – una delle tante Medea che vediamo giornalmente per strada, ossia una delle più comuni e umanissime storie che abbiamo deciso di ignorare senza sforzarci di capirne il motivo.
Un festival che ha dunque stimolato, nel suo variegato programma dal richiamo tutto mediterraneo, l’incontro tra culture e linguaggi differenti, raccontando storie volutamente dimenticate o disperse nello scomodo avvicendamento tra passato e presente. Radici e gesti che proprio non possono essere accantonati per costruire e proiettarsi verso un futuro meno incerto.
Ascolto consigliato
Lecce, 8 settembre 2017