Afternoon – Tsai Ming-liang
Sin dal suo esordio con Rebels of the Neon Gods Tsai Ming-liang si è distinto per i suoi film dallo stile così personale ed estremo – lunghi piani sequenza di un’immobilità potente e abbacinante, inquadrature fisse che catturano i personaggi spesso al centro delle loro abissali solitudini, in spazi che li tengono in ostaggio evidenziandone le debolezze – da venire ben presto considerato uno dei più significativi registi del cinema orientale. Dopo aver vinto il Leone d’oro nel 1994 con Vive l’amour e il Premio della giuria nel 2013 con Stray Dogs il regista si ripresenta a Venezia fuori concorso con Afternoon, un lavoro privo di qualsiasi finzione.
Sì, perché (sempre) in lunghi, immobili piani sequenza Tsai e il suo attore feticcio Lee Kang-sheng, protagonista di tutte le sue opere, conversano seduti su poltrone in una stanza dall’aspetto abbandonato (che più tardi scopriremo essere parte di una casa in montagna dove i due si sono temporaneamente trasferiti), con due finestre che si affacciano sulla lussureggiante vegetazione di una valle. Non certo una conversazione qualunque, bensì una serie di pensieri, dubbi e confessioni sulla vita cinematografica e non di Tsai e Lee Kang-sheng. Spesso il dialogo si configura come un monologo del regista, il quale viene messo deliziosamente in imbarazzo dalla scarsa loquacità della sua musa, persa nel suo broncio lontano che non sente il bisogno di voltarsi verso la macchina da presa, e che si lascia andare soltanto in un secondo momento iniziando a rispondere alle sue domande che oscillano fra ironia, commozione e improvvisa, seria fragilità (come quando gli chiede se piangerà una volta che lui sarà morto).
I piani sequenza, l’onnipresenza dell’inquadratura fissa che mette radici nel film senza più abbandonare lo schermo incastonano i loro discorsi e presenze, alzano il volume dell’intimità, fotografano le sfumature di un’indefinibile amicizia nata ventidue anni fa, costituiscono un punto di vista privilegiato sull’adorazione nervosa e totalizzante del regista per l’attore, che considera come un figlio, e sulla falsa apatia di questo, dalla quale, come un bagliore, si alza a momenti qualche sorriso e provengono frasi che mettono in luce il suo affetto per l’artista, come quando si dimostra contrario alla sua (probabile) decisione di non voler più girare film.
In attesa che Tsai torni sui propri passi e continui a tessere il suo rigoroso percorso cinematografico, non possiamo non accorgerci come, fortunatamente, nemmeno questa volta, in questo inedito angolo di verità a cui il regista ha deciso di darsi, l’inimitabile nettezza del suo stile gli ha dato tregua.