Adieu au langage è la storia di una coppia, colta nel mezzo di una crisi esistenziale, più che sentimentale, ma, soprattutto, del loro cane: è lui il vero protagonista, l’unico animale che ama gli altri più di se stesso, costantemente pedinato dalla macchina da presa per scongiurare la perdita di quei momenti preziosi e irripetibili: il sonno sul divano, la corsa nei prati, il gioco nell’erba.
Una storia ridotta all’essenziale, che, forse, nella sua apparente e semplice banalità, non varrebbe nemmeno la pena di raccontare. E infatti, l’ottantaquattrenne Jean-Luc Godard, non la narra, o almeno non in modo lineare e oggettivo. Piuttosto, stimola lo spettatore a tracciarne una propria e personale interpretazione relazionando ciò che vede e sente dinnanzi a sé. C’è quindi, da subito, un chiaro rimando alle Histoire(s) du cinéma, non solo per la stessa impronta sperimentale del film, ma soprattutto per la presenza delle esplicite (auto)citazioni. Ma c’è, inoltre, un prepotente istinto avanguardistico che spinge il maestro francese a trasformare Adieu au langage Premio della Giuria al Festival di Cannes – in una surreale ricerca estetica e stilistica attraverso le nuove tecniche offerte dalla cinematografia, a cominciare dall’uso del 3D.
Sebbene l’antiestetico occhiale si limiti, apparentemente, solo a rendere difficile la fruizione del film, ci accorgiamo presto di come tale scomodità, faccia parte di quegli elementi disturbanti, come i forti quasi assordanti – e inattesi effetti sonori, o l’uso della fotografia che a tratti graffia occhi e mente dello spettatore, obbligandolo spesso a distogliere lo sguardo. Inoltre, la tridimensionalità permette di astrarre il montaggio dalla pellicola stessa per sfruttarlo anche al di qua dello schermo, attraverso una sovrapposizione visiva e simbolica – in profondità, di storie, personaggi, testi, che, nello stesso tempo, nasconde, o meglio scioglie, dentro un puzzle d’immagini trasformate, plasmate, distorte da filtri, effetti, e dissolvenze.
Il cinema citato, dichiarato, negato nel suo stesso linguaggio, diventa qui strumento di analisi della realtà, partendo dalle banalità che, scrutate da vicino, svelano inedite accezioni: abbiamo mai pensato a come sia cambiato l’uso del pollice? Al suo originale e delicato movimento per sfogliare le pagine si è sostituito il monotono e sterile scivolare, al limite della lussazione, sul touchscreen dello smartphone. Sono gesti scontati e situazioni comuni come una fisiologica seduta al bagno ai quali Godard associa riflessioni e dialoghi filosofici sull’Essere, sulla vita, sulla politica, e su se stessi. Su un’umanità che sta sgretolando (in)volontariamente ciò che la distingue dagli altri animali: la conoscenza e l’uso della parola.
Ecco cosa rende gli uomini e le donne di Godard pezzi – mani, gambe, braccia, piedi di carne strappati dall’anima, corpi infranti separati da un invisibile strato di solitudine. E, attraverso le loro voci piene di parole svuotate di senso, si sveglia in noi la consapevolezza che, talvolta, uno sguardo, intimo e profondo come quello di un cane, senza vocaboli né frasi, racchiuda in sé, da solo, l’intero significato.