Acrobates – Stéphane Ricordel & Olivier Meyrou
“Da terra lo faresti, non pensare all’altezza”. Siamo in un bosco, a parlare è il trapezista Fabrice Champion (guarda qui), dopo l’incidente a Barcellona nel 2004 che lo paralizzò dalla vita in giù. Le immagini dei video amatoriali scorrono davanti ai nostri occhi, semplici, spontanee, e dall’alto delle nostre poltroncine non possiamo fare a meno di provare un brivido di vertigine e ammirazione di fronte a quell’artista così carico di determinazione che anche dalla morsa castrante di una sedia a rotelle emanava fermezza e serenità. Al salto nel vuoto, però, la notte del 25 novembre 2011 ne seguì un altro, nel nulla; e così, d’improvviso, non rimane che qualche frammento di voce, poi il silenzio, e infine un buio di dolore muto invade l’atmosfera.
Acrobates (regia di Simon André) parte proprio da qui, dalla caduta che non trova più il tonfo. Il palco è occupato da una massiccia struttura in legno: un grande scalino che parte da tre metri di altezza e scivola giù in una lunga rampa obliqua (Stéphane Ricordel). Alexandre Fournier e Matias Pilet cominciano a muovere i primi passi su questa superficie scoscesa che non promette né ascese né cadute ma solo movimenti incerti: i due infatti tentano acrobazie minime ma è solo un rantolare nel lutto in cui ogni slancio si spegne sul nascere. Poi un fascio di luce proietta sulla pedana l’immagine di rami spezzati e da questa strana geometria di linee rotte la coppia può tentare di mettere ordine; ecco allora che la struttura si apre, si scoperchia come un baule pieno di sentimenti repressi, nascosti, soffocati nel silenzio, e concede così, finalmente, il giusto tempo per immergersi nei ricordi, guardarli con coraggio e sistemarli una volta per tutte nel passato.
Acrobates è l’elaborazione di una perdita (drammaturgia di Olivier Meyrou). Qui l’elemento spettacolare tipico dell’arte acrobatica cede il passo a un minimalismo drammatico. Attraverso l’incapacità e la resistenza dei compagni reduci a continuare da soli, attraverso quei movimenti trattenuti, abbandonati e sprofondati nell’inazione, si delinea uno spettacolo essenziale di grandissima umanità: è così che la tipica suspense dei giochi di equilibrio si trasforma in una continua tensione emotiva all’empatia, in cui a creare attesa non è più il rischio della caduta ma la speranza della risalita (che i piccoli soprassalti del pubblico rendono incantevolmente collettiva).
E allora non può che ritornare alla mente proprio quella frase “non avere paura, da terra lo faresti”, come a ricordarci per contrasto quanto il dolore o la perdita più schiaccianti possano donare la forza per compiere uno slancio sincero e andare oltre le paure. Come dice a un tratto “Alex” Fournier nei video a Fabrice Champion “essere acrobata non vuol dire fare acrobazie, essere acrobata è soprattutto una questione di spirito”.
Contemplare il terrore del vuoto (qualunque esso sia) e non temere di andargli incontro.