A Hidden Life
L'ultimo tassello del percorso artistico di Malick ritrova la linearità narrativa, un discorso che si fa più strutturato mantenendo le costanti del suo pensiero, una tensione dialettica tra Terra e cielo, immanente e trascendente, orizzontalità e verticalità, luce buio.
Il metallo delle campane, usato per elevare preghiere a Dio, durante le guerre spesso è stato fuso per fabbricare proiettili. Un oggetto pensato per innalzare lo spirito dell’uomo verso il cielo si è trasformato in un altro, intrinsecamente opposto, capace di dilaniarne il corpo. Terra e cielo, immanente e trascendente, orizzontalità e verticalità: una tensione dialettica continua tra questi poli percorre A Hidden Life, il più recente tassello della filmografia di Terrence Malick. Ancora una volta, dopo La Sottile Linea Rossa e The New World è la Storia dei piccoli, anonimi protagonisti ad attirare l’attenzione del cineasta americano. Se stavolta la Luce è alimentata da un solitario non violento (sostenuto, compreso e ispirato soltanto da sua moglie), il buio è quello del Grande Male nazista, che per la prima volta nel cinema malickiano “passa”, in tutta la sua drammatica potenza, grazie ad un sorprendente utilizzo di materiali d’archivio, con filmati in bianco e nero e a colori del Terzo Reich. In nessun altro film di Terrence Malick il contrasto tra Bene e Male è stato mai rappresentato in modo tanto chiaro: da un lato Adolf Hitler, incarnazione assoluta del Maligno precipitato in terra. Dall’altro Franz Jägerstätter, santo contadino del villaggio austriaco di Radegund, periferia dell’Impero, che a quel male rifiuta di prestare giuramento. Fino al martirio.
Molto più che semplice quinta scenografica, il maestoso scenario naturalistico in cui il film è girato tematizza chiaramente l’opposizione orizzontale-verticale. Gli elementi di verticalità (le vette delle montagne, il campanile della chiesa del villaggio) sono filmati da Malick dentro un arioso grandangolo che accentua, quasi a voler raccogliere più natura, la dimensione orizzontale dell’inquadratura. Strutturato per tappe (o stazioni) di una via dolorosa che conduce Franz verso l’inevitabile sacrificio finale, il percorso del protagonista, non a caso, segna però un suo progressivo allontanarsi dalla natura: una spoliazione da quei riti della Terra e da quella appartenenza alla Terra che caratterizzano la figura Franz. Non è che il tentativo operato dal Male di sopprimere l’insopprimibile consonanza tra Grazia e Natura, essenza di tutto il cinema malickiano.
A Hidden Life arriva, all’interno del percorso artistico di Terrence Malick, dopo alcune opere (To The Wonder, Knight of Cups, Voyage of Time) che potrebbero considerarsi diramazioni laterali del grande tronco originato da The Tree of Life. Con il racconto della parabola di Franz Jägerstätter e in attesa del prossimo film sulla vita di Cristo, Malick sembra inaugurare una nuova fase del suo percorso artistico. La coerenza di fondo verso le costanti del suo cinema (ma sarebbe più corretto dire del suo pensiero) non è mai tradita, ma il discorso si fa più limpido, strutturato, meno frammentario, fedele ad una ritrovata linearità narrativa. Se il livello altissimo del comparto tecnico, dalla abbacinante fotografia di Jörg Widmer alla colonna sonora con Handel, Dvorak e Gorecki, è una gradita conferma, a sorprendere maggiormente è proprio la tenuta di questo racconto della durata di circa tre ore. A patto di accettarne il passo disteso e fluviale, A Hidden Life si dispiega in una straordinaria esperienza immersiva. Esercizio spirituale e sensoriale che costituisce l’ennesima conferma della statura di un cineasta, nel vero senso della parola, assoluto.