La trilogia Adamsberg – Fred Vargas
Il sapere postmoderno non è esclusivamente uno strumento di potere. Raffina la nostra sensibilità per le differenze e rafforza la nostra capacità di tollerare l’incommensurabile. La sua stessa ragione d’essere non risiede nell’omologia degli esperti, ma nella paralogia degli inventori.
(Jean-François Lyotard, La condizione postmoderna, 1979)
La letteratura poliziesca è forse la più pura delle forme narrative. La messa in scena di una ricerca della verità, lo sforzo di ricondurre a forma riconoscibile una catena di eventi a prima vista incomprensibili, è la rappresentazione metaforica della quotidiana ricerca dell’uomo di ordine, verità, perfezione: esigenza antropologica fondamentale di cui tutta l’arte è a mio avviso sublimazione. La nostra epoca è stata culturalmente definita ormai da tempo come l’era della fine delle grandi narrazioni costruite dagli uomini per ricondurre a forma comprensibile il caos del mondo. Religioni e ideologie hanno perso il loro potere di offrire un appiglio sicuro a questa esigenza metafisica dell’uomo occidentale. Dato che la perfezione è possibile solo nell’arte, la letteratura poliziesca resta la più straordinariamente feconda e di successo perché permette almeno nella finzione, nella creazione di mondi possibili analoghi al mondo della vita, di esibire la ricostituzione di un ordine.
Oggi uno dei casi più interessanti di successo nel genere del giallo è quello di Fred Vargas, scrittrice (usa uno pseudonimo) francese, ormai da anni stabilmente in cima alle classifiche italiane ed europee. L’eroe di alcuni suoi romanzi è il commissario parigino Jean-Baptiste Adamsberg. I due romanzi di maggior successo della serie dedicata a questo personaggio sono L’uomo a rovescio e Parti in fretta e non tornare: il primo, ambientato sulle Alpi, tratta di misteriose stragi di pecore, e non solo, da parte di un lupo eccezionalmente forte e feroce; il secondo del proliferare a Parigi di strani simboli e lettere che paiono annunciare il ritorno della peste, la morte nera. Le storie della Vargas, archeologa ed esperta di medievistica, affondano in paure mitiche che paiono dimenticate, sembrano riportare nel Duemila pestilenze e lupi mannari, mettono in scena passati irrisolti e non pacificati, colpe di padri che come in una tragedia di Eschilo ricadono irrimediabilmente sui figli. L’autrice ama dipingere personaggi inattuali, fuori dal mondo frenetico e informatizzato che li circonda, il che contrasta fortemente con la generale modernità dell’impostazione narrativa e del suo straordinario protagonista.
Adamsberg è infatti un individuo singolare, diverso dai grandi detective della tradizione del genere: Tutto era vago in Adamsberg e non eri mai sicuro di leggergli in volto il riflesso della realtà. Questo commissario è interessante perché rappresenta un esempio notevole di eroe postmoderno nel genere più classico di tutti, visto che pone a suo fondamento la scoperta di una verità forte e incontrovertibile. Ciò che rende Adamsberg il più moderno dei detective è il suo apparente, quasi programmatico, rifiutare la possibilità del successo nella ricerca. La sua risposta preferita è non lo so. Il suo metodo, nel suo significato etimologico di strada per, è un cammino circolare e inane su se stesso. La sua logica segue peregrinazioni episodiche e indolenti. Adamsberg non cerca l’ordine nel caos. E proprio per questo alla fine l’ordine si potrebbe dire viene a lui; nei vicoli ciechi del pensiero, nell’abdicazione del metodo risiede nascosto il senso.
– Qui si farnetica.
– Ovvio che altro sappiamo fare?
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