Nel periodo della sua trilogia dell’amore (Before Sunrise, Before Sunset e Before Midnight), Richard Linklater lavorava sulla durata, in uno dei più interessanti esperimenti cinematografici nel cinema narrativo americano degli ultimi anni. Il suo nuovo film, Boyhood, è stato frutto di un lavoro rischioso e coraggioso, durato dodici primavere, nel corso dei quali ogni anno il regista radunava il cast e la troupe per girare alcune scene (dall’estate 2002 all’ottobre 2013).
Si parte da (e si arriva a) Mason, un bambino spensierato, come dovrebbero essere tutti a 8 anni, con gli occhi fissi verso il cielo assorto. Da lì a poco quella leggerezza lo abbandonerà a causa di una madre single, incapace di gestire la sua turbolenta vita sentimentale. Mason e sua sorella tenteranno inoltre di recuperare il rapporto con il padre che non vuol crescere, scappato diversi anni prima dalle sue responsabilità familiari. Mason chiude il ciclo, la vita lo ha fatto diventare uomo, e forse anche il cielo sopra di lui, non è più lo stesso.
Linklater gira un mese all’anno in barba a qualsiasi tipo di produzione e distribuzione, proprio pensando all’entità della durata. Uno spaccato panico sulle relazioni personali, sul tempo della vita come del cinema, nel movimento continuo del flusso della vita a cui tutti siamo legati. Sublimazione del crescere come con il nostro album fotografico del divenire o tranche de vie contemporanea. Da quando i nonni ci tenevano in braccio fino ad oggi che pensiamo ad una famiglia.
Il punto di vista del film in fondo è l’America stessa, dalle Twin Towers a Barack Obama. Tutti (il regista in particolare) crescono letteralmente sul set, in una confusione tra realtà e finzione. Tutto cambia, e l’impressione è quella del scivolare su catastrofi annunciate e crisi politiche, economiche, etiche e morali. Così mentre scorre il flusso di questo particolarissimo film inizi a pensare al crollo degli immaginari come alla vacuità dell’immagine, inizi a sentire su di te la paura di una nuova era reazionaria come la freschezza continua della giovinezza. Questo percorso di 166 minuti è in fondo un viaggio di dolce intensità, scritta attraverso il tempo emotivo che lavora attraverso la vita che scorre. Semplicemente verità a ventiquattro fotogrammi al secondo, e che rappresenta il progetto più ambizioso dell’intera carriera di Linklater.
Esperimento cinematografico, romanzo di formazione, racconto epico, diario di viaggio e ritratto intimo, anticonvenzionale della nuova gioventù americana. Figlio illegittimo ma comune di un altra generazione sbandata. Così la vita (e il cinema, suo eterno specchio) è solo improvvisazione come sperimentazione. Alla fine tutto si ristruttura da solo, come se la macchina da presa fosse sempre stata li a condensare l’esperienza vita per poi donarcela. Un opera per tutti, in special modo per chi ha fretta di diventare grande, perché vedersi proiettati e già adulti significa forse lasciarsi il futuro alle spalle e guardare in faccia il presente.