Se c’è un tabù che nonostante la modernità, l’emancipazione, la trasgressione, fatica a cadere, è il sesso. O meglio, non tanto il sesso in sé e per sé (che quella è cosa privata) ma parlare del sesso, o per essere ancora più precisi, parlarne in pubblico. E farlo liberamente. E magari in versi sciolti.
Lo spettacolo di Cetta Petrollo e Federico Sanguineti, dunque, parla di sesso? Non proprio, sarebbe svilente ridurre il loro Gioco a questo; di sicuro, però, il caro vecchio tabù stasera è riuscito a far tremare qualche sedia.
In arte, l’amore è forse uno dei temi più rischiosi da trattare: con il dolore si fa perno sui sentimenti, con la morte si può sempre buttarla in farsa; ma l’amore – se non è il lieto fine di una storia travagliata o la conclusione tragica di una vicenda felice – “finisce” sempre per annoiare terribilmente. Se parlando d’amore, poi, si indugia nell’intimità, il pericolo aumenta considerevolmente, perché o si cade nel banale, gratuito, triviale, oppure scatta subito la condanna: e se mai si scopre che ci siamo identificati in certi particolari, che figura ci facciamo!
Petrollo e Sanguineti, invece, vanno dritti per la loro strada e presentano il loro Gioco con spigliata naturalezza. Nella piccola Sala Studio del teatro Vascello di Roma, di fronte a un pugno di spettatori mal assortiti, i due poeti recitano i loro versi d’amore: un dialogo di rime mancate e assonanze insistite che gioca a rincorrersi, a completarsi, a intrecciare pensieri e desideri lungo i sentieri incerti di una poesia costruita su curiose combinazioni di arcaismi e neologismi. C’è ironia, tenerezza e addirittura un pizzico di critica alle afasie contemporanee (come il sexting o l’esibizionismo da social media).
Eppure manca qualcosa. Un po’ di spessore, un collante più efficace, o magari semplicemente una recitazione che dia il giusto peso alle parole, chissà: di fatto il Gioco stenta a fare breccia, non raggiunge il pubblico, quasi fosse il gioco segreto di due amanti che ricamano poesie sulle loro lenzuola calde. Di verso in verso, infatti, lo spettatore si sente sempre più distante, escluso, come se lo avessero abbandonato di fronte a una porta chiusa: senza neanche concedergli, dopotutto, il voyeuristico diritto di spiare dal buco della serratura.