Se credevate che la stagione di Beckett fosse tramontata, affrettatevi ad accaparrarvi un posto al Vascello di Roma: La Trilogia dell’Attesa vi mostrerà come quel furbastro di un Irlandese, scrollatosi via di dosso ormai quell’aura sacra di intellettualismo in cui per troppi anni era stato rinchiuso, attecchisca oggigiorno anche nelle platee più eterogenee.
Metateatralità, esistenzialismo, teatro dell’assurdo? Macché! Chiedetelo alla compagnia Lafabbrica cosa sia Beckett: vi risponderanno con parole semplici. Ecco gli ingredienti della loro Trilogia: due vecchie bacucche, madre e figlia, che si preparano per l’arrivo imminente del misterioso Ni(hi)l (Aspettando Nil); tre bambini cresciutelli che aspettano fermi e obbedienti il ritorno della mamma (Quando saremo GRANDI); due tondi e voraci Hansel e Gretel che – strega al laccio – stravolgono e ripetono la loro fiaba nella speranza che prima o poi il loro papà torni, pentito, a riprenderli (Hansel e Gretel. Il giorno dopo).
Attesa. Costante, soffocante, frustrante eppure motore dominante dell’atrofia quotidiana: l’attesa è qui sinonimo di speranza, di aspettativa che conforta, di grande dolce illusione. I tre drammi, infatti, sembrano fare un passo avanti rispetto a Beckett: se in Aspettando Godot l’attesa era, in qualche modo, condizione esistenziale, nella Trilogia invece diventa “malattia” da cui non si vuole guarire. Non si attende più qualcuno che appaia e riveli il senso della vita, si aspetta semplicemente il ritorno di qualcuno che gratifichi il nostro esistere, che venga e ci dica che – in sua assenza – siamo stati bravi. La compagnia si dimostra estremamente attenta, insomma, nel cogliere le contraddizioni della realtà alienata (nonché infantile) dei nostri tempi.
Divertente e sagace, la Trilogia è una maratona teatrale che riesce a macinare rapida i minuti grazie a un ottimo equilibrio di elementi: a partire dalle scene spoglie e minimali di Matteo Zenardi, il cui suggestivo gioco di linee sembra suggerire le coordinate più profonde dei tre spettacoli; passando per la sorprendente interpretazione dei sei attori che con estrema disinvoltura dànno vita e spessore a personaggi tutt’altro che banali, mescolando in maniera credibile comicità, ironia e dramma; per giungere alla regia di Fabiana Iacozzilli che calibra efficacemente tre complesse drammaturgie costruite su impegnativi (e talvolta rischiosi) meccanismi di ripetizione, accumulazione e variazioni su tema.
Il pubblico in sala è entusiasta: ride e applaude in continuazione, fragorosamente, forse anche troppo; finendo così, da un lato, per castrare l’arguzia e il crudele umorismo delle scene più sottili, e, dall’altro, per mostrarsi – inconsapevolmente – riflesso grottesco e inquietante del dramma consumato sul palco.