I mille colori di Lucio Battisti
Quello che segue non è un articolo, che non potrebbe che risultare insensato, né tantomeno un’ennesima critica, per la quale non si possiede alcuna qualifica o preparazione; il seguente vuole piuttosto essere un semplice omaggio a un artista, un uomo, molto silenzioso, ma la cui influenza è pesata tanto sulla canzone italiana quanto sulla cultura popolare in generale, con melodie e modi di dire provenienti dalle sue canzoni entrati ormai a far parte del repertorio d’uso comune.
Dalla voce e dall’aspetto inconfondibili, inequivocabilmente e perennemente sé stesso, Lucio Battisti ha avuto il raro coraggio di concedere luce a ogni suo colore, non come il passivo camaleonte, come l’acqua che prenda la forma del recipiente, ma piuttosto come il viaggiatore errante che giunto a una magnifica terra non si accontenti di sedersi al sole ma riparta per un’altra avventura, sempre nuova, alla volta di “verdi terre” o “distese azzurre”.
Sforzandosi di creare una musica sincera e profonda, ma al tempo stesso accessibile e popolare, esplorando continuamente le intime relazioni fra significato e significante, Battisti è riuscito nell’impresa di fonderli senza soluzione di continuità, creando un’opera omogenea in se stessa seppur nelle sue mille sfaccettature, fruibile su vari livelli.
Alla frequente quanto semplicistica obiezione sul fatto che non fosse lui a scrivere i testi si può rispondere con le parole di Pangloss che la penna di Mogol è necessaria alla musica di Battisti quanto il naso è necessario alla vista di un occhialuto.
Indubbio e indiscusso l’apporto del poeta – la cui mancanza si avverte irrimediabilmente nell’ultima produzione di Battisti – va comunque considerato al servizio del genio del primo, che conduceva le danze e s’intrometteva continuamente nel lavoro del paroliere, ora usando la voce per sostituire gli strumenti, ora sostituendo le parole con la musica nelle frasi troppo sentite perché il climax potesse concludersi in una forma finita e razionale; sempre, dettando la propria linea.
Battisti cominciò ufficialmente la carriera discografica nel giorno del suo ventisettesimo compleanno, esattamente quarantacinque anni fa, imponendosi con un album chiamato non a caso col suo stesso nome, cui, come se non bastasse, fece immediato seguito un secondo, Lucio Battisti Vol. 2, che insieme al primo propose a un pubblico totalmente impreparato un suono e uno stile nuovi, immediatamente tanto osannati quanto duramente criticati. Dopo la partecipazione al Festival di Sanremo con Un’avventura, il successo definitivo arrivò nel 1970, con la pubblicazione di Emozioni che giunse al primo posto nella classifica degli album più venduti.
La critica si concentrò soprattutto sulla poca estensione vocale del cantante, invero compensata magistralmente da un’espressività quasi recitatoria, la cui più celebre manifestazione è forse quel “scusa… credevo proprio tu fossi sola…” che si trova in Fiori rosa fiori di pesco.
L’amore dai mille volti, romantico, geloso, poetico, leggero, passionale, perennemente insoddisfatto, libertino, ma soprattutto quotidiano, fatto di gioie semplici e abituali, è la lente sempre presente attraverso cui Battisti si esprime e a causa della quale viene spesso attaccato con l’accusa di disimpegno politico; disimpegno forse motivato da uno sguardo più spirituale che pragmatico, sguardo che diverrà più evidente nella seconda produzione del sodalizio Battisti – Mogol.
Dal blues rock de Il tempo di morire, al patetico de I giardini di marzo, passando per il lirismo di Emozioni, la calda dolcezza de Il mio canto libero, il progressive di Amore non amore, la gamma espressiva è così vasta da essere impossibile catalogare tutte le influenze e i generi coinvolti nei venti album usciti in quasi trent’anni di attività.
Imprevedibile e sorprendente come la potenza degli archi che travolge nell’epica Vento nel vento, semplice e incisivo come La canzone del sole, i cui tre accordi sono ancora i primi che spesso sfoggia un chitarrista in erba; cupo e grave come il pianoforte che tesse la trama angosciosa destabilizzante Il nostro caro angelo, malinconico e magnifico come La collina dei ciliegi, universale e struggente come Vendo casa, Battisti non dimentica un’ironia volontariamente spesso al limite del volgare (“Anche tu / ami tanto le banane, anche tu”… “Apriamo il frigo, / dai, sì dai, ho fame! / Urca! Guarda cosa c’è: / il salame” ).
Gioiello di maggior pregio all’interno della collezione, troppo spesso ignorato, è probabilmente Anima Latina del 1974. Registrato in seguito a un viaggio in Sud America, rappresenta un episodio a sé stante, complesso, sperimentale, onirico, esaltante, a tratti criptico, con brani che si scoprono lentamente, quasi con fatica. Una fatica decisamente ripagata, volta al coinvolgimento attivo dell’ascoltatore che trascinato dal ritmo incalzante è chiamato prima ad ascoltare, poi a interpretare e infine a prender parte alla successione di suggestioni le cui componenti sono difficilmente scindibili.
Impossibile rendere l’idea della scena che si profila dopo che il preludio della traccia che dà nome all’album s’interrompe bruscamente e “scende ruzzolando / dai tetti di lamiera / indugiando sulla scritta / ‘Bevi Coca Cola’”.
Tutti i pezzi di questo disco, seppur finemente cesellati, scalpitano d’una pervasiva energia vitale, impregnata d’un erotismo il cui orgasmo viene freudianamente confuso con la morte (un tema, quello del dualismo Eros e Thanatos che si ritrova spesso in molti altri luoghi delle canzoni di Battisti e Mogol); si richiamano l’un l’altro, dipingono scenari, pongono domande, suggeriscono parole per intenderne altre; si concludono e si recuperano a vicenda, offrendo una miriade d’interpretazioni che non rischia mai d’esaurirsi.
“Ma se tu rifiuterai di giocare all’attore forse un libro scriverai come libero autore, e tu forse parlerai di orizzonti più vasti…”
Grazie di averlo fatto. Grazie a Lucio per aver condiviso i suoi mondi e, soprattutto, grazie per essere sempre stato, per dirla con parole sue, un artista che non segue il suo pubblico, ma gli sta davanti.