Questo gabbiano, immagino, è un simbolo. Ma io, scusate, non vi capisco. Sono troppo semplice , io, per capirvi. Ebbene, il pubblico non deve temere assolutamente di ripercorrere gli stessi interrogativi di Nina davanti all’allestimento de Il Gabbiano da parte della compagnia diretta da Filippo Gili, in scena al Teatro dell’Orologio di Roma fino al 15 dicembre. Spettacolo godibile a cui va aggiunta una particolare menzione per la scelta di rimanere quanto più possibile fedele al testo originale, una opzione dovuta al rispetto che i traduttori, in questo caso Gili stesso, manifestano nei confronti degli scrittori e dei testi che hanno il compito di traghettare in un’altra lingua.
Il testo di Čechov non sembra avere una ruga, un acciacco dovuto al tempo; una drammaturgia che rivive nella sua originaria natura antiromantica, per merito delle scelte registiche e dell’impeccabile recitazione degli interpreti, tra gli altri Gili stesso nella parte minore di Samraev e l’intensa Vanessa Scalera nel complesso ruolo della grande attrice Irina Arkadina, la cui grande pecca è di non saper recitare nella vita il ruolo di madre.
Messa in scena improntata al realismo degli intenti, in cui gli spettatori affrontano la scena da diverse angolazioni, seduti su due lati rispetto allo spazio in cui agiscono gli attori, efficacissimi, con brusii, pesantissimi silenzi come zavorre sui loro drammi amorosi e familiari e da cui si allontanano per diverse vie di fughe, creando un reticolato inaspettato verso ingressi e uscite di scena che circondano lo spettatore rendendolo parte del dramma.
Crolla ogni certezza sull’amore, sui rapporti familiari; il testo cechoviano ci risucchia in quel vortice tragico di una umanità spaesata e annichilita. La natura e i sentimenti sono incorniciati in un boccascena che rispecchia nient’altro che la propria immagine riflessa in una vuota crisi identitaria che continua a rimanere la grande protagonista della nostra epoca.