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Parkland – Peter Landesman

Quella del 22 Novembre 1963 è una data che ha segnato profondamente la storia e la coscienza americana. L’omicidio di John Fitzgerald Kennedy ha rappresentato però anche un momento cruciale nell’evoluzione del rapporto tra pubblico di massa e rappresentazione filmata della violenza. Il filmato di Abraham Zapruder di quelle fatali ore 11.40 della mattina di Dallas ha per anni ispirato l’attenzione di tanti cineasti, che con il linguaggio del cinema d’inchiesta hanno cercato di illuminare la scena di un crimine ancora per molti aspetti troppo oscuro. L’ultimo a provarci è l’esordiente Peter Landesman, giornalista del New Yorker alla prima prova, dietro la macchina da presa, con il suo Parkland, in concorso a Venezia.

Il titolo del film prende il nome dell’ospedale in cui nelle concitate ore che seguirono l’attentato furono trasportati d’urgenza tanto il trentacinquesimo presidente degli Stati Uniti d’America quanto quello che fu immediatamente sospettato come suo attentatore, Lee Harvey Oswald, ferito in diretta televisiva dai proiettili dell’enigmatico Jack Ruby. L’equipe medica dell’unità d’urgenza non riuscì a strappare alla morte nessuno dei due, annegando nell’abisso della coscienza collettiva americana il peso di una tragedia forse evitabile, e condannando un’intera nazione a un grande esercizio di elaborazione del lutto.

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Molti sono i rischi che si possono correre quando si sceglie un soggetto come questo, non certo nuovissimo, per un film: l’enfasi retorica, la prolissità, l’ideologismo, il deja-vu. Rischi che il film di Landesman, pur senza essere un capolavoro, schiva abilmente uno ad uno. Parkland è un film che, sostenuto da una regia dignitosa, da tante ottime interpretazioni (su tutti il sempre carismatico Billy Bob Thornton) e da una sceneggiatura efficace e stringata, coinvolge lo spettatore dall’inizio alla fine senza smarrirsi in lungaggini inutili, pur muovendosi su più tracce narrative che, introducendo molti personaggi interessanti, compongono un puzzle delle tre giornate che seguirono l’attentato di Kennedy.

Particolarmente significativi due momenti del film che raccontano due opposti movimenti di ascesa/discesa: il rocambolesco trasporto della bara di JFK sull’aereo presidenziale e la sepoltura di Oswald in un anonimo cimitero della provincia americana. Due dinamiche speculari di ascensione e dannazione, in cui i mass-media giocarono un ruolo fondamentale. Unici presenti al momento della sepoltura, alcuni giornalisti, in assenza di altro personale, parteciparono fisicamente alla tumulazione del feretro di Oswald. Nulla accade per caso, come suggerito da una felice scelta di montaggio che accosta questo momento al funerale del presidente e al definitivo insabbiamento del fascicolo dell’FBI sull’attentatore. A troppi interrogativi non avremo mai risposta, ma l’interesse intorno a quelle fatidiche ore è destinato a non esaurirsi mai e viverne gli attimi, anche solo attraverso un film, con dolorosa partecipazione è una esperienza che merita di essere vissuta.

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