Bruce Springsteen @ San Siro, Milano – 3/6/2013
C’è chi ha imparato nella vita a dare sempre il meglio di se stessi. Anche quando non te lo chiede nessuno. Anche quando basterebbe molto meno. Uno di questi è Bruce Springsteen. Sul palco, il più incredibile di tutti. Milioni di dischi venduti, centinaia di stadi riempiti, carisma sovrabbondante da regalare. Per la quinta volta a San Siro, il Boss regala tre ore e mezza di concerto al suo pubblico, a partire dalle 20 per non sforare i limiti dell’orario notturno.
Tre ore e mezza di Bruce Springsteen significa tre ore e mezza di musica ininterrotta, senza entrate e uscite, senza prendere fiato, senza tempi morti. One, two, three, four,è questo il breve intermezzo tra una canzone e l’altra. Tre ore e mezzo, ma potrebbe andare avanti per l’energia che forgia dentro di sé e che alimenta i 60.000 di San Siro. Alcuni cazzuti, bendati, barbuti. Altri imbiancati e appesantiti. Altri freschi di peluria adolescenziale. I cowboy del rock sono infiniti, coloriti e insospettabili. E in molti hanno portato i propri figli. In spalla, per mano o liberi di saltare, sul prato di San Siro, pronti per ricevere il battesimo del rock’n’roll.
L’eredità trasmessa a questi figli non è fatta di soldi, né di terreni, gioielli o case. L’eredità è un’emozione. Nata in anni rivoluzionari, come gli incredibili anni ’70, cresciuta davanti al suono dei giradischi (che suonavano Born To Run, Darkness On The Edge Of Town, The River) e impiantata definitivamente nel cuore di tutti coloro che hanno assistito ad uno dei suoi concerti. In Italia, a partire da quella prima volta, il 21 giugno 1985, a San Siro (io non c’ero).
Ieri come oggi, lo spettacolo è unico, sempre nuovo e sempre uguale. La liturgia prevede quasi una ventina di musicisti che distribuiscono suoni e melodie (a dire il vero con un’audio piuttosto scadente) e un animale da palcoscenico che sceglie la scaletta guardando i cartelli del pubblico, che nuota nella folla e si fa accarezzare da onde di mani adoranti. Suda sette camicie, corre, ruggisce, ama ed è amato, accolto da uno striscione coreografico degno di un derby, che recita: Our love is real.
Per celebrare la quinta volta a San Siro, Bruce regala al suo pubblico tutto l’album Born In The Usa (suonato nell’85). Prima e dopo, perle del passato, novità e grandi classici intramontabili. Lo stadio canta, balla e si fa immortalare dalle telecamere che registrano i movimenti della folla su di un megaschermo da brivido, alle spalle di Bruce. Tra richieste del pubblico, bis, tris e cover le canzoni sono 33. Un fiume di musica, celebrata nella prima ora alla luce del sole di un’estate che non arriva, suonata un po’ a luci spente (per trovare l’intimità di un evento che sprigiona umanità) e un po’ a luci accese (per non perdere un attimo dell’incredibile festa danzante che si consuma allo Stadio).
E fanculo ai quattro gatti rompicazzo (scusate l’espressione rock
) che vivono attorno a San siro, quelli che manifestano contro il Comune e che si lamentano del rumore. Qui si svolge un rito ben più importante della pace di un modesto focolare domestico.
A notte inoltrata, quando ha già salutato e ringraziato ad uno ad uno i suoi musicisti, proprio non ce la fa ad andarsene via. One more, e solo con la sua chitarra regala l’ultima perla Thunder road.
Bye bye Bruce. San Siro non si muove di qui. Non farci aspettare troppo.
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