Luchino Visconti
100 registi (e tantissimi film) che migliorano una vita
Il conte Visconti, al secolo Luchino. Non scontata la relazione tra bellezza e appartenenza ad una stirpe aristocratica ma in questo essere umano, forse innata e propria di natali nobili, questa connessione si è rivelata tale nell’eccellere del senso della bellezza come espressione di armonia quasi maniacale, capace di esasperare lo sguardo davanti all’eccesso incantevole della ricerca della perfezione estetica.
La bellezza che il Visconti regista ha saputo firmare, architettare nella costruzione delle scene, sublimare con l’uso del dettaglio, in fondo inizia sempre da subito in lui, dal titolo: leggere, uno dopo l’altro, i titoli accreditati a ciascuna delle sue pellicole sembra proprio conceda di ascoltare, forse toccare, l’apice del bello. Senso, Il Gattopardo, Vaghe stelle dell’Orsa, La caduta degli dei, Morte a Venezia. Sono solo titoli? Non pare: forse più armonie di suoni che poi, al guardare, corrispondono ad una sinfonia d’immagine.
La bellezza di Visconti fa eco non solo nella scelta dei titoli, delle ambientazioni, ma spesso e inevitabilmente anche dei volti che però non vivono mai di sola estetica: sono di una raffinatezza che ammutolisce il ricorrente Helmut Berger o il Bjorn Andresen di Morte a Venezia (1971), pellicola in cui anche l’arte del costume di Piero Tosi concorre al tocco estetico che ascende al sublime, per altro non assente anche in Senso (1954) o ne Il Gattopardo (1963).
La bellezza salverà il mondo, afferma il principe Mikin ne L’Idiota di Dostoevskij: la bellezza che Luchino Visconti, senza semplificare il suo cinema ad una espressione audiovisiva di sola ricerca estetica naturalmente, e non rendendo qualunquista la frase di Dostoevskij, ha indubbiamente reso per il cinema mondiale un’espressione narrativa in cui il bello non è ridotto soltanto ad un concetto di superficie ma riesce a dimostrare di possedere uno spessore di valore profondo, spesso base imprescindibile di un bel racconto in pellicola.