Judas and the Black Messiah
Un film chiave nella storia del cinema afroamericano moderno che va a imporsi in un'industria che per troppo tempo l’ha costretto a una piccola porzione di spazio e responsabilità civile nella creazione dell’immaginario americano.
Che cos’è un mito? Un mito è un racconto che da tempi immemori raccontiamo per dare una spiegazione a eventi ai quali non era possibile dare risposta. In seguito il mito si fece terreno, collegandolo alla vita straordinaria di uomini e donne che con il loro passaggio su questa terra riuscirono a fare della loro vita esempio di crescita e/o decadimento come monito e insegnamento da tramandare ai più. I miti si possono trovare nei campi più disparati della nostra società. Di molti sportivi o personalità politiche, per esempio, si è parlato trasponendo la loro carriera e vita a fatti e gesti straordinari, laddove il singolo riuscì ad entrare in un monte olimpo moderno, capace di influenzare l’immaginario collettivo e cambiare le sorti della storia a venire producendo un cambiamento.
Il titolo, Judas and the Black Messiah, scelto per il film diretto da Shaka King, in lizza con cinque candidature agli Oscar, riassume e conferma la caducità soggettiva delle nostre convinzioni che, mito dopo mito, muta così come mutano le società in cui viviamo. È importante per la storia e per le comunità, in questo caso quella afroamericana, creare e trascrivere per i posteri con i mezzi che più si ritengono efficaci le storie dei propri miti. Siamo tutti uomini alla pari e come tali non vi è vergogna o sacrilegio nell’usare parabole di miti trasposte ad altri ma, al contrario, ci ricorda che se per molti filoni culturali i propri miti nel passato sono diventati ricordo per molti altri le battaglie da compiere per guadagnarsi una serenità storica sono ancora in atto.
Daniel Kaluuya interpreta la vita straordinaria di Fred Hampton, presidente del Black Panther Party dell’Illinois, assassinato nel sonno nel 1969 in una discussa retata del Fbi nel suo appartamento. Primo film agli Oscar prodotto da tre produttori afroamericani, l’opera racconta lo spessore politico e rivoluzionario di un ventunenne capace di difendere la propria comunità e convinzioni in un’America nixoniana profondamente razzista e fascistizzata. Un ennesimo e necessario scheletro nell’armadio che oggi viene riaperto e riesumato nel tentativo di fare giustizia di un passato ombroso e incerto che non deve ripetersi oggi. Il film si articola in un interessante costruzione che, seguendo la linea degli eventi accaduti, non dà la possibilità di individuare un protagonista in particolare ma fa dello spettatore un osservatore onnisciente che tutto vede e tutto sa, aggiungerei finalmente e purtroppo solo ora. Come per il titolo, e la parabola a cui fa riferimento, il racconto salta tra traditore (interpretato da LaKeith Stanfield) e tradito. Questo aspetto che solo noi conosciamo articola e mostra senza retorica o convincimento la profondità dei personaggi che vediamo nel corso del concretizzarsi del proprio destino.
Un film senza precedenti nella storia del cinema afroamericano moderno che va a imporsi in un’industria che per troppo tempo l’ha costretto a una piccola porzione di spazio e responsabilità civile nella creazione dell’immaginario americano. Un augurio che questo precedente non diventi mito ma al contrario si consolidi in una sempre più equa e variegata scelta di storie e titoli.