Cronache dal lido #9 – Venezia 77
Dopo il crollo economico di una sperduta città industriale del Nevada, Fern (Frances McDormand) carica i più importanti oggetti della sua vita in un furgone e si mette sulla strada. Alle sue spalle il dolore della perdita: del lavoro, della casa, ma soprattutto del marito, affetto a cui la donna è ancora profondamente legata. Davanti a lei l’orizzonte sconfinato dell’America profonda, segnata dalle tante solitudini incontrate lungo il viaggio e da nuove sfide che mettono ogni giorno alla prova il suo attaccamento alla vita e ai ricordi. Altri uomini e donne che hanno scelto di vivere in viaggio sono per lei punti di riferimento mobili in un panorama continuamente mutevole, in cui la natura rivela a chi sa osservarla tutta la sua misteriosa bellezza. “Gli uomini vanno e vengono, le città nascono e muoiono, intere civiltà scompaiono. Soltanto la terra resta. Restano la terra e la bellezza che strazia il cuore. L’uomo è un sogno, il pensiero un’illusione e solo la roccia è reale”. In queste riflessioni dello scrittore Edward Abbey, la regista Cloé Zhao ha trovato l’ispirazione per la realizzazione del suo Nomadland, film che conclude la serie di opere presentate all’interno del concorso veneziano. Struggente racconto on the road con una straordinaria Frances McDormand protagonista, il film da molti in partenza accostato nei pronostici al Leone d’Oro non ha deluso le aspettative. Sviluppando lo stile e la sensibilità già espressi con il precedente e bellissimo The Rider, la regista cinese naturalizzata americana regala alla Mostra del Cinema di Venezia numero 77 una perfetta e memorabile chiusura. Incarnazione di ogni possibile ideale di resilienza, la protagonista del film è sospesa tra un passato da cui deve separarsi, ma che non può dimenticare, e un futuro interamente da ricostruire, dentro una nuova e certamente difficile dimensione. L’attesissimo Nomadland, titolo che prova a segnare il rilancio del cinema mondiale attraverso una storica collaborazione tra i festival di Venezia e Toronto (dove il film è proiettato in contemporanea), esprime così tutte le incertezza, le contraddizione e le sfide del nostro tempo. Quelle che anche il cinema, e la Mostra di Venezia di quest’anno ce lo ha ricordato, sarà costretto a combattere per vincere la sua battaglia e che, inevitabilmente, gli offriranno l’opportunità di percorrere nuovi sentieri, ancora tutti da esplorare.
Davud è un giovane che assiste la madre malata in un piccolo villaggio rurale. La sua interiorità lo spinge alla ricerca di una “vera” famiglia, composta da coloro che, pur non conoscendo ancora, egli sente nel profondo porteranno amore e significato nella sua vita. Dopo aver vissuto, nel corso della giornata, una serie inaspettata di incidenti, che in qualche modo risolveranno i problemi delle persone incontrate lungo il cammino, Davud farà ritorno nel luogo dove ha sempre vissuto. «Al centro del mio lavoro c’è l’idea della persona che cerca di comprendere le ragioni per cui vive ed è presente, qui e ora, in questo mondo. Penso a qualcuno che non sa amare e tuttavia crede nell’amore, una persona che cerca di trovare la sua vera famiglia, certa che quest’ultima porterà un significato autentico nella sua vita. In questa storia Davud è la persona che ci ricorda le possibilità dell’amore». Queste le parole che il giovane regista azero Hilal Baydarov, allievo di Bela Tarr al primo lungometraggio di finzione dopo alcune esperienze nel documentario, ha utilizzato per presentare il suo film in concorso a Venezia. Quello che l’opera racconta è un cammino iniziatico che per tappe segue la crescita di consapevolezza del protagonista, scandito da una divisione in capitoli nel corso dei quali il giovane aiuta alcune donne ad uscire dai loro drammi personali attraverso la morte. Girato con un sguardo ascetico, figlio di una scelta stilistica di dichiarata ispirazione bressoniana ma anche delle limitazioni imposte dalla realtà produttiva del paese, In between dying è una delle opere più difficili da interpretare tra quelle presenti nella kermesse veneziana. Le dinamiche interiori del protagonista sono trasportate sullo schermo da scelte di regia tanto radicali quanto impegnative per lo spettatore: tempi dilatati, lunghi silenzi e un testo poetico che sembra scivolare nel poeticismo appesantiscono questo film, prodotto da Carlos Reygadas e, curiosamente, da Danny Glover.
Durante il matrimonio di una coppia di giovani dell’alta borghesia, alcune persone irrompono nella elegante villa che ospita i festeggiamenti. E’ l’inizio di una sanguinosa ribellione che getta il paese nel caos. La giovane promessa sposa, dopo aver tentato di aiutare la moglie malata di un anziano lavorante, viene rapita dalle milizie rivoluzionarie, che chiedono alla famiglia di versare un importante riscatto. Due domestici della casa, madre e figlio, svolgeranno il ruolo di intermediari nelle trattative per la liberazione della ragazza. Tesa e incisiva, questa nuova opera del controverso regista messicano Michel Franco irrompe nella selezione del concorso veneziano scuotendo il pubblico con la sua violenza e con la sua carica di rabbia sociale. Dopo una prima parte in cui la tensione è magistralmente costruita attraverso l’accumulazione di “indizi” che suggeriscono l’avvicinarsi di una ecatombe, il film esplode nella messa in scena di un brutale massacro che, tuttavia, non è mai percepita come gratuita. Soltanto nella parte finale il meccanismo narrativo mostra qualche falla, nella rappresentazione di uno scenario che risulta tanto sfuggente ed ambiguo quanto, di fatto, lo è la stessa realtà socio-politica messicana raccontata dal regista. Tonalità cromatiche dominanti di questo affresco sono il bianco, il rosso e il verde, i colori della bandiera messicana, a voler segnare con una nettezza ancora più vivida i confini di un discorso che, comunque, si può facilmente allargare ad una dimensione universale. A dir poco amaro il finale del film, in cui le forze della restaurazione tornano di prepotenza al potere, reprimendo con una violenza ancora più feroce chi ha tentato di mettere in discussione la loro autorità. Come racconta il titolo del quadro che apre il film «soltanto i morti hanno visto la fine della guerra», e anche la distopia di un nuovo ordine sembra rinnovare la certezza che non esista più alcuno spazio per luoghi senza conflitto.