Little Joe
La paranoia striscia lentamente e assume le fattezze di un meraviglioso fiore rosso, capace di alterare il comportamento umano e manipolare la sua mente. Fantascienza distopica geneticamente modificata.
Joe è il nome di un bellissimo fiore rosso. È una pianta creata artificialmente in laboratorio e ha capacità terapeutiche: se accudita con amore rilascia un profumo che rende felici le persone. Questa miracolosa invenzione è il risultato del lavoro di Alice (Emily Beecham), bioingegnere che produce geneticamente nuove specie vegetali, oltre che madre single e workaholic. Ma il fiore si trasforma in breve tempo da prodigio della scienza a pericolosa minaccia. La paranoia dell’ultimo film dell’austriaca Jessica Hausner comincia con una piantina. In Little Joe, presentato in concorso al 72a edizione del Festival di Cannes, il thrilling germoglia lentamente: la paura si insinua a poco a poco nella mente dei personaggi e si radica nelle loro vite. La regista guarda alla fantascienza, agli (ultra)corpi che attaccano gli uomini dall’interno, in maniera invisibile, con effetti quasi impercettibili, modificando il loro comportamento. Il fiore elimina le preoccupazioni, i pensieri negativi, le angosce, neutralizzando anche, tuttavia, le emozioni, appiattendo l’umore, rendendo gli individui schiavi di un appagamento generato artificialmente, di una felicità artefatta: l’uomo è un OGM.
E se Alice, suo figlio Joe, i suoi colleghi sono come marionette, il palcoscenico in cui si muovono è uno sterile laboratorio: la Hausner ricostruisce ambienti asettici (la serra con i fiori, ma anche la casa di Alice) e poi li inquadra con precisione chirurgica, sezionando gli spazi come uno scienziato all’opera. In questo inquietante microcosmo immaginato dalla Hausner, sono due gli elementi che spezzano l’apatia: i colori, soprattutto il rosso brillante di Little Joe, e il sonoro, usato in senso antirealistico come uno stridente commento, come un avvertimento di pericolo.
In Little Joe la narrazione si adegua al setting asciutto, generando una distanza così straniante che rischia di produrre un eccesso di rigore. Il risultato è un film emotivamente freddo e distaccato. Gli stessi attori modulano la loro recitazione smorzando gli eccessi (premio a Beecham come miglior attrice a Cannes). La Hausner dà vita a uno scenario fantascientifico originale ma rigidissimo, in cui la minaccia non è aliena e non viene dallo spazio profondo. Il nemico assume invece le fattezze rassicuranti di un fiore ed è il prodotto della superbia dell’uomo, che pecca di una sfacciata fiducia nelle proprie capacità. Il prezzo da pagare? La metamorfosi in individui svuotati della propria umanità, organismi manipolati, esperimenti di laboratorio.