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Uncut Gems

Un cinema ad alto voltaggio che fa dell'intensità (di toni, di ritmi, di linguaggi) e di una instabilità quasi parossistica la sua cifra stilistica.

In medicina è definito cinetosi lo stato di malessere che si determina in risposta a movimenti non usuali del corpo. A scatenare le crisi sono movimenti capaci di generare quadri sensoriali d’informazione in conflitto con i modelli noti sulla base di esperienze percettive pregresse. Principali sintomi delle cinetosi sono senso di malessere, iperventilazione, pallore, sudorazione, sensazione di calore, depressione, apatia, nausea e vomito. Non sfugga la radice semantica che accomuna il disturbo causato dal movimento all’arte, la settima, che dal “movimento” assorbe il suo statuto identitario.

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L’esperienza sensoriale di uno qualsiasi dei film girati dai fratelli Safdie, in soggetti particolarmente sensibili, può evocare l’aura di una cinetosi. Tanto è perturbante, aggressiva, adrenalinica. Fin dall’inizio del loro primo lungometraggio, quel Heaven Knows What presentato nel 2014 a Venezia, il cinema di Josh e Benny Safdie, dioscuri del nuovo cinema indipendente newyorkese, si è rivelato cinema ad alto voltaggio, che fa dell’intensità (di toni, di ritmi, di linguaggi) e di una instabilità quasi parossistica la sua cifra stilistica. Uncut Gems, terzo lungometraggio inanellato in 5 anni, eleva questo assunto a sistema, segnalandosi, grazie all’apporto decisivo dell’attore protagonista Adam Sandler, come uno dei prodotti cinematografici più clamorosi visti negli ultimi anni. A stupire, in questa sorta di apologo spurio sull’ebraismo americano ai tempi della società liquida, è la potenza innovativa e sopra le righe del suo impatto. Davvero il cinema dei fratelli Safdie, con Uncut Gems, già capaci di esibire quasi muscolarmente un invidiabile senso di consapevolezza dei propri mezzi, non somiglia a niente di già visto. E’ indubbia, certo, una chiara paternità scorsesiana. Non a caso il Mentore figura tra i ringraziamenti del loro secondo bellissimo film Good Time ed è addirittura produttore esecutivo di Uncut Gems. Il continuo sovrapporsi di situazioni e di voci e “l’adorabile caos” in cui la loro macchina da presa sembra muoversi a meraviglia può ricordare la polifonia entropica del cinema di Robert Altman. Eppure il loro punto di vista configura uno sguardo completamente nuovo, che utilizza il linguaggio cinematografico in modo altrettanto spiazzante ed originale.

Uncut Gems Adam Sandler CR: Julia Cervantes/A24

Sceneggiatura, interpretazioni, movimenti di macchina, montaggio, colonna sonora (fondamentale l’apporto della musica elettronica, qui firmata Oneohtrix Point Never) in Uncut Gems, come nei due lungometraggi precedenti, raccontano schegge impazzite di umanità in balia del caos/caso. Figure ricorrenti nel loro cinema sono gli “spostati” del terzo millennio, personaggi, spesso giovani, costretti alla marginalità perché estranei, per scelta o per necessità, ai circuiti organizzati dell’ordine sociale. Howard Ratner, meschino trafficante di preziosi e scommettitore patologico, travolto da un crudele destino di quotidiane catastrofi, ne incarna il prototipo perfetto. Con un tratto etnico peculiare aggiuntivo: l’ebraismo, una appartenenza culturale a cui egli continuamente cerca di riferirsi. Quasi un appiglio, un’ancora di salvataggio, dentro uno scenario esistenziale di totale deriva costellato di fallimenti, che beffardamente gli nega ogni forma di possibile riscatto. Un profilo in qualche modo uguale ed opposto a quello del professor Larry Gopnik, il protagonista di A serious man, altro testo filmico partorito, curiosamente, da una diade di jewish brothers. Metodico, ordinato, culturalmente attrezzato e inserito dentro una società in piena efficienza (quella americana del 1967) Larry. Confusionario, disordinato, palesemente sprovvisto di qualsiasi bagaglio culturale e gettato nella mischia di una società implosa in ogni sua componente Howard. Entrambi cercano, con enorme fatica, di trovare il loro posto dentro il grande ingranaggio. Larry, pur facendo appello ad ogni lume di razionalità o fede religiosa, fallirà miseramente nel tentativo di ridurre la possibilità ad equazione. Howard, dietro la stolida vacuità edificata sul volto di un grandissimo Adam Sandler, prova semplicemente a stare al gioco. Rimanere se stesso senza cadere dalla giostra il suo imperativo, “This Is How I Win” il suo mantra.

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