Troppa Grazia
Una commedia dal tono surreale in cui l’apparizione religiosa è in realtà la manifestazione di una crisi morale totalmente laica.
Si dice che gli autori facciano sempre lo stesso film – ripetendosi per scelte stilistiche, tematiche, cast, ect. in una continua tensione tra evoluzione e involuzione. Per citare due esempi (più che) lampanti basta fare i nomi di Almodovar e De Palma. Senza voler entrare nel merito con confronti di sorta tra questo o quell’altro autore, Gianni Zanasi si incaglia alla perfezione in questo costrutto. Presentato all’ultimo Festival di Cannes (dove ha conquistato, nonostante le critiche poco benevole della stampa estera, il premio Label Europa Cinema per il migliore film europeo alla Quinzaine des Réalisateurs), Troppa Grazia potrebbe essere recensito in maniera analoga al precedente film di Zanasi, La felicità è un sistema complesso: pregi e difetti, slanci e cadute sono pressoché gli stessi.
Alba Rohrwacher è Lucia è una geometra con un fidanzato un po’ coglione (un Elio Germano che sembra Mastandrea), vive sola con sua figlia adolescente e si barcamena come può per arrivare a fine mese. In mancanza di un’occupazione stabile si intrufola di nascosto nei cantieri per correggere gli errori degli architetti distratti (o disonesti) estorcendo poi loro un piccolo compenso per il “favore” fatto. Tramite un vecchio amico (un ben ritrovato Giuseppe Battiston) il Comune le affida un controllo su un terreno destinato alla costruzione di un grande complesso architettonico, un’opera modernissima che rilancerà verso il futuro la piccola cittadina della provincia dove è ambientata la storia. Lucia, che è sì naïve, ma anche molto scrupolosa, nota che nelle mappe del Comune qualcosa non torna, e subito viene invitata a fare finta di nulla. In più, durante i rilevamenti viene interrotta da quella che inizialmente scambia per una giovane profuga. Questa, rivelatasi a lei come la Madonna, inizia a seguirla e ad apparirle nei momenti più inopportuni. «Vai dagli uomini e di’ loro di costruire una chiesa là dove ti sono apparsa…», questo il compito che la Madonna affida a Lucia, che non è credente e si quasi si convince di esser diventata matta.
Superato lo scoglio iniziale dell’introduzione, dove Lucia litiga col fidanzato in un siparietto mucciniano sulla coppia in crisi per via delle differenze antropologiche tra uomo e donna e dove lei si improvvisa folletto salvifico dei cantieri non a norma, Troppa Grazia riesce a prendere quota e, anche grazie al tono leggero della commedia surreale – in cui l’apparizione religiosa è in realtà la manifestazione di una crisi morale totalmente laica-, riesce a dar vita a un mondo bizzarro e godibile, sconclusionato ma amabile, come i personaggi che lo popolano. Alba Rohrwacher riesce a risultare perfino comica.
Nella parte centrale si susseguono diverse trame e sotto-trame (la figlia innamorata del compagno bello di scherma bello ma antipatico, il padre jazzista ex eroinomane che si gode la fama più su Facebook che in scena) mai spiegate in maniera realmente concreta: si parla di corruzione, di danni ambientali, di errori catastali… Nulla è però mai messo a fuoco, e nello svolgimento della trama sembra un effetto voluto, anche Lucia stessa è, man mano, sempre più confusa, tanto da credere di star impazzendo. La geometra squinternata ma integerrima capisce che qualcosa nel progetto non quadra, un’incongruenza misteriosa che potrebbe mettere a repentaglio… gli abitanti? L’ambiente? Non è dato saperlo con precisione. La Madonna non l’aiuta in questa sua ricerca di chiarezza, anzi, non fa che aumentare il suo disagio e la sua costernazione. E questa Madonna, che arriva alle mani pur di farsi ascoltare dalla riluttante Lucia, per l’intento surreale ma al contempo comico del film è una vera manna «Nessuno mi ha mai detto di no!», sbotta incredula a un certo punto, di fronte all’ennesimo diniego di Lucia, che di far costruire la chiesa proprio non ne vuol sapere.
Troppa Grazia veicola in sé un messaggio ecologico mite e conciliatorio verso un pubblico pigro ma pieno di buoni sentimenti, e cade -vittima della confusione che vi alberga- su un finale frettoloso, che invece di riportare ordine nelle fila dei diversi discorsi iniziati qui e là durante un’apparizione mariana e l’altra lascia tutto in sospeso, lasciando un senso di confusione e incompiutezza al posto di un afflato salvifico e catartico, da realismo magico, quale probabilmente era nelle intenzioni di Zanasi. Ripercorre in queste falle, per l’appunto, lo stesso schema di La felicità è un sistema complesso: si lancia in una crociata sociale (il lavoro, l’ecologia, il conflitto morale) travestita da commedia surreale senza mai metterne a fuoco tematiche e narrazioni.
Anche la colonna sonora è affidata nuovamente a Niccolò Contessa de I Cani. Schemi che si ripetono. Quattro penne alla sceneggiatura evidentemente sono troppe: tra gli altri, oltre a Zanasi torna il sodale Michele Pellegrini -già in La felicità è un sistema complesso e Non pensarci. Sono film che si salvano, in corner, grazie alla felicità con cui il regista riesce a dirigere gli attori e ad alcune trovate, simpatiche ma sempre innocue.